L’ultimo trasloco della mia vita è avvenuto il 18 luglio di quest’anno, l’anno del virus, dello “stai a casa”. Me ne vado con mia moglie da Milano, dopo 36 anni, per andare a vivere a Nuoro. Lasciamo la terraferma per un’isola, una grande città per un paese o poco più, una casa piccola per una molto spaziosa. Sarà la mia ultima dimora. Morirò a Nuoro, da sardo.
Sono stati mesi stressanti, trascorsi a riempire scatoloni, scartare e trattenere, ritrovare oggetti dimenticati. Il trasloco è innanzitutto un riprendere contatto fisico con le mille cose di una vita, tenerle in mano, spostarle, osservarle, togliere loro la polvere. E’ una lunga panoramica su tutto quello che contiene una casa, un film che sembra non finire mai, un interminabile flashback. Una storia.
Ogni oggetto chiede: “Mi porti con te o mi abbandoni?”. Il vero tormento del trasloco è proprio questo: decidere cosa portare nella nuova casa e cosa lasciare o buttare. E’ la domanda struggente che fanno soprattutto le piccole cose inutili, insignificanti, da sempre confinate nell’ombra, nel non uso. Le cose minime che amava Fernando Pessoa, le cose che sono le cose e basta. A diversi oggetti ho risposto “Tu non significhi più niente per me e io non sono più quello di una volta”. Non so se ho fatto bene, se le cose mi hanno capito.
E’ successo in particolare con i libri, cinquecento su tremila, messi via via in una borsa e regalati a un anziano rivenditore ambulante. Persino libri di cinema! Alcuni, pochi, sono finiti nel bidone condominiale, carta straccia. Mi sono liberato anche di molti dvd e di certi cd musicali. Tra le innumerevoli cose di una casa albergano anche tanti oggetti che non “coseggiano” più, come direbbe Heidegger. Oggetti muti.
Un nuovo inizio
Ho voluto conservare traccia dell’ultimo trasloco della mia vita scattando foto e girando video con lo smartphone. E’ stato un evento straordinario e irripetibile che meritava di essere immortalato. La memoria viva di quel 18 luglio tramonterà presto, ma rimarranno le sue immagini ricordo, molto più precise. Sono immagini melanconiche, un po’ luttuose, perché raccontano la fine di tutto un lungo periodo della vita senza dire nulla su un futuro ancora indecifrabile.
Il paesaggio domestico noto è stato brutalmente smontato da uomini robusti, raccolto a pezzi in un elevatore montacarichi e poi messo in un camion. Per alcune ore le nostre amate cose di casa sono state esposte nello spazio pubblico della strada, preda della vista degli altri. Hanno attraversato il mare in totale solitudine, aspettando di essere accolte due giorni dopo nella nostra e loro nuova casa e tornare ad essere paesaggio dell’abitare.
Traslocare è un lavoro faticoso di svuotamento e riempimento, di destrutturazione di un ordine familiare e di riorganizzazione di un ordine diverso. Cambiare casa è un nuovo inizio, una rimodulazione dell’identità personale, in cui gli oggetti giocano un ruolo determinante. Anche loro, posti in un luogo e in spazi differenti, spesso ricavati in mobili nuovi, non saranno più gli stessi di prima. Conosceranno altri oggetti e forse nuovi usi. Vivranno in luci e ombre diverse. Sono sicuro che si troveranno bene e noi con loro.