Chissà quante porte, ogni giorno, apriamo e chiudiamo, pensando magari ad altro o parlando al cellulare. Nella casa in cui abitiamo, nel luogo in cui lavoriamo, facendo shopping, recandoci in un ufficio, salendo e scendendo dalla macchina, e così via, fino alla porta immateriale del computer. Certe porte, come quelle dei supermercati, si aprono e si chiudono da sole, risparmiandoci la piccola fatica di spingerle. Per non parlare delle porte immaginarie o simboliche dei sogni, del cinema, delle fiabe, della letteratura, dell’arte, della religione.

Viviamo tra le porte, tra continue entrate e uscite, come a teatro. Tutti (o quasi) gli ambiti della vita sono infatti accessibili attraverso una o più porte, che “rompono lo spazio” (George Perec), proteggendolo e rendendolo vivibile. Un tempo era così per l’intera città, la città daziaria, le cui porte immettevano nel reticolo delle strade interne e da queste nel mondo extra-muros, svolgendo anche una funzione di controllo sul transito di uomini e cose.

Sino a qualche decennio fa, e ancora oggi soprattutto in certe città e paesi del Meridione, lo spazio prossimo alla porta di casa, a volte dotato di panche, era luogo d’incontro e di socialità. Ci si sedeva in piccoli gruppi fuori dalla porta a chiacchierare e raccontare, a prendere il fresco nelle caldi notti d’estate. Di frequente capitava di stazionare in piedi sulla soglia della porta, per lo più sempre aperta durante il giorno, per dare un’occhiata alla strada, osservare i passanti. La porta partecipava al senso del luogo, era il fondale e lo snodo delle relazioni di vicinato che l’animavano. 

Tra soglia e cornice

La porta è una soglia, un limite, che separa e unisce sfere diverse: dentro e fuori, pubblico e privato, luce e ombra. “La parete è muta. Ma la porta parla,” scrive Georg Simmel nell’opera Ponte e porta. Saggi di estetica. “E’ essenziale all’uomo nel senso più profondo, porre a se stesso un limite, ma con la libertà di poterlo di nuovo togliere, di potersi porre al di fuori di esso.” La porta-cerniera, che divide congiungendo e viceversa, dà quindi un senso di finitezza all’esistenza, ci fa sentire a casa nel mondo.

C’è una porta che, più di altre, sta al confine tra lo spazio pubblico e quello privato: è la porta (o portone) d’ingresso agli edifici dell’abitare, alle nostre case. Essa appartiene allo spazio esterno dei flussi sociali, alla strada su cui si affaccia, e allo spazio interno e intimo della vita domestica che custodisce. E’ la soglia che tutti i giorni varchiamo uscendo e rientrando nel e dal mondo. E’ il punto di attesa dell’ospite che si annuncia suonando il campanello. E’ un passaggio, un crocicchio, vite che vanno e che vengono.

Fotografate, le porte appaiono come dei quadri dentro delle cornici. La porta in senso stretto, ovvero il panello porta, è in realtà sempre contornata da stipiti e coprifilo, accostati di frequente da motivi ornamentali più o meno complessi. La cornice fa parte della porta e nello stesso tempo le è esterna, circoscrivendo lo spazio porta nel più ampio spazio facciata dell’edificio.

Quando si guarda un palazzo, l’attenzione si concentra subito sulla porta d’ingresso: la porta è il volto di una casa, il suo biglietto da visita. Per questo motivo è fatta spesso oggetto di cure e abbellimenti, che giocano sull’ampiezza della porta stessa, sulle forme e sui materiali delle diverse parti componenti, sulla presenza di gradini, atrii, addobbi, punti luce, ecc. Le soluzioni tecniche ed estetiche adottate, riflesso anche delle diverse epoche di costruzione, sono talmente varie da dare la sensazione che non esistano due porte d’ingresso identiche in tutti gli edifici della città. Un vero e proprio patchwork visivo, espressione delle infinite storie che la città contiene e racconta.

Miseria e nobiltà

Decoro e bellezza del portone di uno stabile sono strettamente collegati allo status sociale di chi vi abita. In alcune zone del centro storico di Milano si susseguono gli ingressi più o meno maestosi dei palazzi o delle ville della borghesia e delle professioni liberali. Sono eleganti e austeri, ma senza essere troppo sontuosi, in linea con la sobrietà delle facciate in cui si collocano e il ben noto understatement della borghesia milanese. Semmai lo splendore può iniziare appena oltrepassata la soglia, con le pietre, i marmi, i ferri battuti, i vetri, le lampade degli androni. I cortili interni ornati di piante, statue, colonne, per accedere poi alle scale signorili e ai vecchi ascensori a vista in legno pregiato che conducono alle porte dei singoli appartamenti. E’ qui, in queste “quinte artistiche”, magari chiuse in alto da un bel cielo di soffitti decorati, che si vede la vera ricchezza, in parte nascosta o meglio minimizzata dalla scena più convenzionale della porta d’ingresso. Un antico detto locale recita: Bela de denter, pei padroni/brutta de foera, pei mincioni.

Lontane dalle porte della “nobiltà” si aprono e si chiudono le porte della “miseria” dei caseggiati popolari della periferia urbana e sociale. Delle “case Aler” del Giambellino o di San Siro, per esempio, oggi abitate in gran maggioranza dagli immigrati stranieri. Porte minime di case minime, in ferro e vetro smerigliato, soglie scialbe ed elementari di passaggi di persone provenienti da luoghi lontani. A differenza delle porte borghesi non hanno niente da nascondere.

Tra la miseria e la nobiltà, si pongono le porte dei palazzi del ceto medio, improntate in genere alla trasparenza di vetrate più o meno ampie e di buon gusto. Ad esse possiamo affiancare le porte e porticine d’ingresso delle abitazioni delle famiglie piccolo borghesi, che si sviluppano al piano terra o su pochi piani, contrassegnate volentieri da un disegno pulito e minimalista.

Comunicazioni

La porta di un edificio residenziale, che è sempre una porta associata a un numero civico identificativo, non risponde soltanto ai bisogni di riparo e sicurezza rispetto al mondo esterno. E’ anche un oggetto che ospita, sul pannello o appena i lati degli stipiti, una serie di messaggi in uscita ben visibili (vendesi/affittasi, passo carrabile, area video sorvegliata) o che riceve comunicazioni in entrata (la buca della posta). A volte è la tavolozza della creatività indisponente di un writer.

Ovviamente, la porta di entrata di una casa comunica con l’esterno attraverso tutta una serie di segni inglobati nella sua stessa struttura, nei materiali utilizzati, negli ornamenti, negli accessori, nelle cornici, che ne fanno un vero e proprio testo pubblico da leggere e interpretare. Credo che il linguaggio delle porte d’ingresso degli edifici in cui abitiamo – di tutti, non solo dei palazzi di prestigio a vario titolo famosi – sia ancora in buona parte da decifrare.

Questa funzione comunicativa assume poi una forza emotiva particolare quando la porta annuncia al mondo un evento importante del ciclo della vita: una nascita, un matrimonio, una morte. Un fiocco blu o rosa, un velo bianco, un drappo grigio o viola: oggetti simbolici che catturano l’attenzione, invitando alla sosta, a un piccolo pensiero dedicato a qualcuno che non conosciamo. E’ un po’ come se quella porta ci abbracciasse, facendoci varcare per un istante una soglia d’intimità pur rimanendone all’esterno.

Ci sono quindi tanti motivi d’interesse per osservare, e magari anche fotografare, le porte d’ingresso degli edifici di una città. Esse sono parte costitutiva fondamentale della “frase urbana” – riprendendo il titolo di un recente libro di Jean-Christophe Bailly – in cui siamo costantemente immersi quando ci muoviamo negli spazi urbani. La città è un palinsesto, dove ogni volta entriamo e da cui ogni volta usciamo attraverso le partiture seriali e sempre diverse delle sue infinite porte.