Quando, verso le quattro del pomeriggio, esco dalla metropolitana, in piazzale Corvetto inizia a tuonare e a piovere. Il solito acquazzone pomeridiano, che ogni giorno di questa strana primavera, da più di un mese, si rovescia sulla città. Alle cinque, il temporale finisce, il sole si fa largo tra le nuvole. Torno a casa o vado a filmare il vicino piazzale Gabrio Rosa, motivo per il quale sono venuto sin qui? Decido di andare, attratto dall’idea che una piazza bagnata possa avere qualcosa di diverso di una piazza asciutta.  Se non ci sarà nessuno è anche meglio, mi dico.

E invece no, neanche dieci minuti dopo dalla fine della pioggia la piazza inizia ad animarsi, almeno nella parte meno in ombra. Come se le persone non potessero stare per molto tempo lontane da lei. E’ che una piazza richiama sempre qualcuno, anche quando è bagnata. Di una piazza c’è sempre bisogno. E’ lì che ci aspetta, aperta e aprente.

Un gruppetto di ragazzi rivendica un’appartenenza di luogo, il quartiere Corvetto. Un discreto via vai scorre sul lato del piazzale dove, per un breve tratto, si affacciano i negozi. Terminata la messa pomeridiana, i fedeli escono dalla chiesa di San Michele e Santa Rita, s’intrattengono sul sagrato a chiacchierare. Ignorano, ma senza evitarla con fastidio,  la mano petulante di una giovane zingara che chiede l’elemosina. E che lì dev’essere di casa.

Piazzale Gabrio Rosa ha tutto per essere una piazza realmente vissuta: la gente del posto, gli immigrati stranieri, la parrocchia, le case, i negozi, gli alberi, i giochi, la fontana, le “vedovelle” che dissetano. Ma per l’ineffabile toponomastica milanese è soltanto un piazzale, uno slargo per il traffico.