Ci vorrebbe una storia geografica delle panchine e del sedersi, di come il sedersi sia cambiato nel tempo, nei luoghi, nelle culture. Riferito agli esseri umani,
perchè  anche gli animali si siedono. Il verbo intransitivo “sedére” significa
letteralmente, secondo il dizionario Devoto-Olli, “stare con le natiche posate su una superficie di appoggio, tenendo il busto eretto o poco inclinato”. Mettere il sedere a sedere, insomma.

Stare seduti non vuol dire necessariamente stare inattivi, oziosi. Molte cose si facevano e si fanno da seduti. E oggi il tempo del sedere sembra largamente prevalere su quello dell’essere in piedi. Siamo seduti anche quando ci spostiamo, dato che sempre di meno andiamo a piedi. 

Tra la variegata molteplicità dei posti a sedere ve n’è uno che si distingue da tutti gli altri, sia sul piano formale che funzionale: la panchina. Nata per il sedere esclusivo e conviviale di aristocratici e borghesi, ha acquistato fama con le promenades di Jean-Jacques Rousseau tra i giardini dell’arcadica Ermenonville.  La panchina si è in seguito democratizzata, pur impoverendosi nelle forme, per diventare un segno diffuso della moderna civiltà urbana, oggetto pubblico per eccellenza. La sua presenza discreta ha alimentato l’immaginario di tutte le arti della scrittura e del visivo. Il mondo, la vita, la storia e le storie, sono piene di panchine.

Banc de la Reine, Parc Jean-Jacques Rousseau di Ermenonville – Fotografia di André Auger.

Spazio aperto al mondo

Ma cos’è la panchina? Nel suo bel libro Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, Beppe Sebaste la definisce così: “La panchina è un luogo di sosta, un’utopia realizzata. E’ vacanza a portata di mano. Sulle panchine si contempla lo spettacolo del mondo, si guarda senza essere visti e ci si dà il tempo di perdere tempo, come leggere un romanzo”. Un “passeggiare da fermo”, aggiunge Sebaste, una flanerie.

La panchina è nello spazio aperto del mondo e per il mondo. Fa dono di sè, sporge, ci invita, ci accoglie. Piantata stabilmente sulla terra, sembra protendersi, nonostante la sua pesantezza e la sua fissità, verso il cielo, mettere assieme, come direbbe Heidegger, “umani e divini”. Il suo dintorno non è un vuoto indifferente, neutro, ma uno spazio permeato da una sorta di aura, che disegna come il confine invisibile di un luogo in qualche modo sacro. La panchina-luogo è sempre dotata di una soggettività singolare, di una sua “panchinità”, la cui essenza è la relazione.

La panchina pensa? Sembrerebbe proprio di sì. Nel suo piccolo e singolare libro Il pensiero delle cose, Francesca Rigotti, riflettendo sulla cosa sedia, riporta una citazione di Wittgenstein in base alla quale “la sedia pensa tra sé e sé”. Non solo pensa, ma parla. Wittgenstein si chiede infatti quale sia la differenza “tra il parlare tra sé proprio di questa sedia e quello proprio di un’altra, che si trova lì accanto”. E verrebbe da aggiungere: come parlano le sedie tra loro? Se tutto questo vale per la sedia, vale a maggior ragione per la panchina, che parla alla e della varietà degli umani più di quanto faccia una sedia sotto il tavolo della cucina di una casa. Ogni cosa dice la cosa che è in sé, perchè ogni cosa ci riguarda, è profondamente intrecciata, fusa, alla nostra vita, che senza le cose non avrebbe senso. La panchina vive con noi, pulsa con noi, come le panchine dipinte da Van Gogh. 

Vincent van Gogh, La panchina di pietra nel giardino dell’Ospedale Saint-Paul, 1889.

Dispositivo del vedere

“La panchina che fa vedere, non si lascia vedere”, scrive Michael Jakob nella premessa al suo prezioso e fortunato libro Sulla panchina. La panchina è un potente dispositivo della visione e della conoscenza. La panchina ci fa osservare il mondo, le persone, la vita ordinaria che ci scorre davanti come le sequenze di un film. Guardare e basta, contemplare. Guardare con la messa a fuoco sull’infinito, che acquieta e sospende il presente, tutto quello che preme da vicino. Guardare in silenzio con lo sguardo perso. Guardare oltre, fantasticare, immaginare: insieme alla panchina, che vede tutto.

Felicemente seduti e sognanti sulla panchina, dunque, incorniciamo il mondo, la realtà che ci circonda,  un po’ come quando scattiamo una fotografia. Non è un caso che i grandi fotografi – da Kertész, a Winogrand, a Ghirri, a tanti altri – siano stati spesso attratti dalle panchine, sia come oggetto delle loro fotografie, sia come punto da cui guardare e traguardare. Una storia della panchina incrocerebbe di frequente la storia della fotografia. Nella stessa pratica fotografica diffusa ricorre spesso e volentieri il motivo della panchina, immersa per lo più in un’aureola di romantica malinconia: la panchina appartata nel parco, lungo la riva del fiume o del lago, nel controluce di un tramondo infuocato sul mare. La panchina è decisamente fotogenica e pittorica, ha qualcosa di profondamente umano e creativo, è un magnete per lo sguardo e il desiderio. E’ un corpo per i nostri corpi, un grembo materno. 

Luigi Ghirri, Paris, 1972

Sostando sulla panchina-corpo non soltanto si osserva lo spettacolo del mondo, ma si possono fare tante altre cose: dormire, leggere, chiacchierare e raccontare storie, incontrarsi, confidarsi, baciarsi, ascoltare musica, telefonare, navigare nel web, abbronzarsi al sole, bere, mangiare, scrivere, affiggere targhe ricordo, ricoprire di messaggi e cuoricini il legno, la pietra, il metallo, la plastica, con cui la panchina è costruita. Esiste poi la panchina della memoria, la panchina monumento. Ma si può anche morire, sulla panchina – di freddo, di droga, di disperazione, di solitudine. 

Alla versatilità e alla polisemia della panchina ho dedicato il mio “pinterest” Benches – The uses, un allegato documentale che integra e arricchisce il presente articolo. La panchina appare davvero come una raccolta di testi, un grande libro, che ci parla della vita e del mondo. Della storia. La panchina è un formidabile strumento di conoscenza. 

Letture

Beppe Sebaste, Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, Laterza, Roma-Bari, 2008.

Francesca Rigotti, Il pensiero delle cose, Apogeo, Milano, 2007.

Michael Jakob, Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte, Einaudi, Torino, 2014.

Sandro Lecca, Benches – The uses, Pinterest, 2016.