Maggio 68. Sembra impossibile, 50 anni dopo, che nella storia del mondo contemporaneo possa esserci stato un momento come il Maggio 68 francese. Un sogno desiderante collettivo, come se il sol dell’avvenire sorgesse davvero dalle barricate del Quartiere Latino di Parigi. Io non ero là, dove il sogno esplodeva, come nella scena finale di Zabriskie Point, che avrei visto due anni dopo a Trieste. Credo che fosse il mio ultimo mese di servizio militare, trenta giorni all’alba. Vidi il film, che non mi piacque molto, insieme a un torinese, un anarchico balbuziente. Prima di entrare nella sala avevamo rubato dei libri in una libreria del centro nascondendoli nelle tasche capienti dei cappotti da soldato. Un piccolo atto sovversivo, in mancanza di meglio. Trieste era bellissima, inondata dalla luce ventosa del mare e del cielo.

Ma dove mi trovavo precisamente nel Maggio 68 e nel 68 in generale? Ho sempre detto, a chi me lo chiedeva, che ero a militare. All’inizio alla Scuola per allievi sotto ufficiali di Civitavecchia. Mesi orribili, quelli, con i “nonni” diplomati fascisti che rompevano continuamente i coglioni. Poi artigliere nel Friuli, basco nero a Banne di Villa Opicina, due chilometri dal confine con la ex Jugoslavia, collegata a Trieste da una funicolare. Ma ora che mi sforzo di fare memoria locale scopro che non è proprio così, che per almeno 40 anni ho  dichiarato inconsapevolmente il falso essendo convinto della veridicità di una cosa non vera. Io nel Maggio 68 non ero a militare, stavo ancora a Chiavari, nella casa dei miei genitori. Mi alzavo alle cinque del mattino, prendevo il treno sino a Moneglia, fuori dalla stazione di Moneglia venivano a prendermi in macchina, si saliva a Borghetto Vara, dove c’era il cantiere di un lotto della nuova autostrada Genova-Livorno in costruzione. Io lavoravo lì, in questo cantiere tra gli ulivi, facevo i disegni con il tecnigrafo, aiutavo il topografo a fare le rilevazioni lungo il tracciato, tutto in nero. L’anno prima mi ero diplomato da geometra.

Un giorno aiutai i contadini a raccogliere le olive da terra in un piccolo oliveto che si trovava nei pressi della baracca dell’ufficio tecnico. Doveva essere Ottobre o Novembre. Presi la busta con i soldi dello stipendio e la portai a casa, consegnandola, come sempre, a mia madre, insieme alla borsa con le olive, che lei avrebbe messo in salamoia. Non tornai mai più a Borghetto Vara e mi tenni la borsa. Andai con un amico a Trento per iscrivermi a Sociologia. Prima di Natale arrivò come una bomba la cartolina di chiamata alle armi. Mi ero dimenticato di rivolgere l’apposita domanda di rinvio all’Università. Finite le feste, a Gennaio 1969 (o era Febbraio?), partii con il treno per Civitavecchia. Le cinque ore più tristi della mia vita, con il mare altrettanto triste e scialbo che finita la Liguria appariva e scompariva in lontananza.

Il diario mancante

Se avessi scritto, e poi conservato, il diario di quei giorni non avrei mai potuto sostenere, come ho sostenuto sino ad oggi, che io nel Maggio 68  mi trovavo a Civitavecchia come militare di leva, mentre invece vivevo a Chiavari con i genitori e lavoravo a Borghetto Vara come geometra alle prime armi. Per quanto in un diario si possa mentire a stessi, di certo non avrei datato Civitavecchia trovandomi a Chiavari e Chiavari trovandomi a Civitavecchia. Per non parlare di Banne Opicina, dove arrivai quando il 68 era finito da un pezzo.  I giochi a nascondino giocati in un diario sono di tutt’altro genere. Ma forse alla domanda “Nel 68 tu dov’eri?” rispondevo “A militare”, perchè magari non pensavo al 68 come un singolo anno, ma come un periodo pluriennale, la sua cosiddetta “onda lunga”,  un’onda soprattutto italiana, che spiazzava la mia memoria. 

In tutta la mia vita io non ho mai tenuto un diario, anche per un solo un giorno, una sola pagina, una sola riga. E’ un errore di cui oggi mi pento. La vita di ciascuno di noi è l’unico romanzo di cui siamo protagonisti e che meriterebbe di essere scritto, giorno dopo giorno. Un diario è la prova (più o meno probatoria) che abbiamo vissuto, che quel giorno io ero qui e non là, che facevo questo e non quello. Che pensavo, ridevo, sognavo. Più o meno. Vero o falso, più o meno, non importa. Importa quello che rimane, le parole scritte sulle pagine. E così le fotografie, una fotografia al giorno, perchè anche le fotografie rimangono, mentre il tempo fugge. Un archivio? Perchè no. Lo si può sempre bruciare, volendo, quando diventa troppo ingombrante.

Piegarsi quindi sulla propria storia con la costanza, la cura, la devozione dei monaci scrivani. Un patrimonio di vita vissuta che nel tempo diventa infinito e che i soli ricordi mentali non possono cogliere e animare nella sua ricchezza e vastità. I ricordi, spesso, sbagliano, prendono lucciole per lanterne, Civitavecchia per Chiavari, sono sfiniti dall’oblio. Questo diario che non c’è mi manca molto, oggi. Era da iniziare subito, appena nato, appena imparato l’alfabeto, appena impugnata una matita, una penna. Ora ne avrei a milioni, di parole, che sarebbero le parole dei miei 70 anni. Non tutte le parole, non tutta la vita, che va oltre tutte le parole, ma almeno delle mappe, delle tracce più o meno attendibili dei tanti sentieri attraversati per arrivare dove sono.

Il Maggio

Il 14 Maggio 68, alle sei del mattino, compivo vent’anni. Internet mi dice che era un Martedì. Il sole nasceva a Parigi mostrando le macerie lasciate nelle strade dall’immensa manifestazione popolare del giorno prima. Il 15 gli studenti occupavano l’Odèon. L’Odèon, La Sorbonne, Daniel Cohn Bendit, usine Renault, i boulevards, le barricate, erano tutte immagini televisive, racconti giornalistici, cortine fumogene. 

A Chiavari, città di preti e di democristiani fino al buco del culo, non succedeva nulla. Ma proprio nulla. A Borghetto Vara ancora meno di nulla. Forse, anche quel giorno, si sentivano le urla del capo cantiere, che bestemmiava in continuazione. Un veneto nervoso, alto e magro. Mi è sempre piaciuta la famosa frase di Paul Nizan: “Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Lessi il suo libro, Aden Arabia,  quando era già tutto finito.

Io ero con loro, con gli studenti e gli operai del Maggio. Una delle tre o quattro mosche bianche di Chiavari. Ero con Luigi Tenco, morto suicida l’anno prima al merdoso festival di San Remo, che lo aveva fatto a pezzi. Anch’io avrei voluto essere là, ma non potevo esserci. Piangevo la sua morte.

Vorrei essere là
però io non ci posso essere
perchè non ho trovato ancora
il mio posto nel mondo
(Luigi Tenco)

 

Ero con Cesare Pavese, La bella estate, I compagni, Il diavolo sulle colline. Suicida pure lui. Bruciavo, ma di una rabbia vuota e non pensavo di spararmi un colpo in testa. Non tenevo un diario e non mi suicidavo. Semmai avrei sparato ai borghesi o almeno scagliato pietre: Sous les pavés, la plage. Ero molto ottimista, come volontà, simile a mio padre, che però aveva anche l’ottimismo della ragione. L’orizzonte del mare mi salvava, prometteva qualcosa, un altrove: La vie est ailleurs.

L’uomo a una dimensione. Il manifesto del partito comunista. 2001: Odissea nello spazio. Tony Richardson, Jean-Luc Godard, Joseph Losey. I pugni in tasca.  Il partigiano Johnny. The Times They Are A-Changin. Donovan. Quaderni piacentini. Quindici. 

Ero con Radio Luxembourg, quando scendeva la sera, 1440 Khz in AM, e il 68 era ancora da venire. Wikipedia  m’informa che ha cessato di trasmettere definitivamente nel 1993 e che le sue antenne di Marnach sono state abbattute nel febbraio del 2016.