Esattamente un anno fa, più o meno a questa stessa ora del pomeriggio, mi trovavo nei pressi della cascina di Molino Dorino, periferia nord ovest di Milano. C’era un sole caldo, come oggi. Ero lì per scattare delle foto alla vecchia cascina-mulino, che sorge a un centinaio di metri dalla stazione della metropolitana. I suoi fabbricati sono ben visibili dal piazzale della stazione, ma quanti sanno che appartengono a un antico molino del ‘600 rimasto in funzione sino agli anni 70/80 del secolo scorso? Qualcuno, notandoli, si chiede almeno che cosa siano quei casoni grigi laggiù? Almeno questo chiedersi, che sarebbe già un segno di attenzione, un accorgersi, un inizio di riconoscimento.

I luoghi non fanno altro che mostrarsi, venirci incontro, sempre. Non scappano, sono lì. E’ il nostro sguardo civilizzato che li nasconde o che li evidenzia in base a certi canoni estetico-culturali e alle condizioni di accesso. Un luogo è degno di vista, un altro no. La cascina  Molino Dorino, al momento, non appare degna: è sotto i nostri occhi, ma non basta. E’  un luogo invisibile di Milano o della Milano invisibile.

Poi ho lasciato perdere. Ho messo tutte le foto in una cartella del disco esterno del mio computer e amen. Non ho più scritto l’articolo che, con l’aiuto di quelle immagini, avevo in mente di scrivere per il mio sito, Fareluogo, che è un luogo dove si parla di luoghi. Ma una fotografia digitale, se non la si cancella, prima o poi riappare allo sguardo, ritorna in vita, riattiva ricordi. E sembra dire: io sono ancora qui, ma tu dove sei stato in tutto questo lungo anno? Perché mi hai fatto nascere per poi abbandonarmi subito? E io: d’accordo, ora scrivo l’articolo, prima che i ricordi  svaniscano completamente nell’oblio. 

E’ che abbiamo gli occhi pieni di fotografie che non guardiamo e che non ci guardano. Che si cacciano (cacciamo) via l’una con l’altra. Sino a un epoca relativamente recente – l’epoca dell’analogico – le fotografie scandivano le tappe e gli eventi importanti della nostra vita. Facevano compagnia, periodicamente le si “sfogliava” con piacere, come dei libri. Erano degli oggetti, delle tracce di vita, delle affezioni, che duravano nel tempo. Oggi non è più così, tutto passa e “muore” in fretta, specie le immagini.

Un incontro del terzo tipo nella radura inselvatichita

La cascina Molino Dorino sorge al centro di un lingua di terreno a verde incuneata tra il piazzale della stazione metropolitana, la strada provinciale chiamata Tangenzialina, un lungo muro dietro il quale sono allineati dei depositi dell’Atm. Appena più in là i fabbricati della Motorizzazione Civile. Uno spazio della lentezza letteralmente circondato dai nuovi spazi della velocità. Uno stare dentro uno scorrere.

Mi inoltro tra una fitta vegetazione incolta, priva di qualsiasi cura, una macchia vagabonda che si è presa tutta l’area antistante la cascina. Procedo un po’ a fatica, affondando tra l’erba alta. La prima fotografia è una lunga parete grigia quasi cieca, con i tetti rossi spioventi, che si innalza dietro la massa vegetale impenetrabile. Vorrei vedere la ruota del mulino, ma da qui non si passa. La cascina-mulino è come rintanata nel verde selvatico che la protegge e la nasconde. Un water gettato tra l’erba prodigiosa di un caldo aprile. Sul confine della Tangenzialina sfreccia un camion.

E qui i carri degli agricoltori della zona arrivavano pieni di frumento, riso, lino da macinare. Qui scorreva l’acqua del fontanile Cagnola, che muoveva le pale del mulino. Qui vivevano delle famiglie. Qui si lavorava, si cantava, si pregava. Qui era un luogo vissuto. Qui il paesaggio suonava la sua musica. Qui non era ancora Milano, era Trenno. Qui non è più qui.

E in questo strano pomeriggio di un anno fa qui, un po’ in lontananza, un giovane straniero fa finta di orinare accanto a un alberello mostrando chiaramente il membro. Mi guarda. Mi sposto, si sposta, ripete il gesto osceno, continua ad osservarmi. Mi accendo una sigaretta. Allora si avvicina, chiede da accendere, fuma Marlboro. Gli domando qualcosa, ma non capisce una sola parola d’italiano. Forse sa un po’ l’inglese, ma per me l’inglese è come l’italiano per lui. Non c’è proprio modo d’interagire un minimo. Ha una faccia scura di non saprei dove. Sta lì silenzioso e guardingo, come se chiedesse compagnia. Ma io vado, lo saluto, riprendo la pista sterrata, che conduce davanti al cancello d’ingresso della cascina. Mi volto. E’ ancora là, di nuovo accanto all’alberello, con il grande cazzo fuori dalla patta, che mi guarda. Ciao, bello.

Quando a casa racconto lo strano incontro avuto con il giovane immigrato, forse un arabo, dicono che sono matto ad avventurarmi da solo in certi posti abbandonati da Dio. Che poteva succedermi qualcosa e nessuno se ne sarebbe accorto. Poteva anche picchiarti per rubarti i soldi, dice mia moglie. Ma non è successo niente.

La cascina e gli orti

Il cancello è aperto. Al centro dell’aia è posteggiato un pulmino Mercedes blu. Si vedono dei panni stesi sotto degli alberi. Mobilia e altri oggetti buttati qua e là. La cascina Molino Dorino è abitata da qualcuno. Questo qualcuno è un uomo robusto sui 50 anni, che spunta fuori all’improvviso e mi ordina di smettere subito di fotografare. Si affaccia un secondo uomo, più giovane, forse suo figlio. Continuo a fare degli scatti, lui minaccia di sequestrarmi la macchina fotografica se non la smetto subito. Fa anche il gesto di strapparmela dalle mani. Questa è l’ultima, dico mentendo. Parlo soltanto con il più anziano, il giovane rimane seduto per tutto il tempo su una poltrona senza dire nulla, chino sul cellulare.

Perchè non posso fotografare? I padrone non vuole. Chi è il padrone? E ‘il signor tal dei tali. La cascina verrà demolita per far posto ai depositi? Non sappiamo niente, bisogna chiederlo al padrone, ma lui non vuole buttarla giù. Di dove siete? Ucraina. Vivete qui? Sì. Da quanto? Quattro anni. Vi trovate bene? Benissimo, c’è l’aria buona. Lavorate? Facciamo trasporti privati, portiamo le persone in giro. Da dove si passa per vedere la ruota del mulino? Da qui, ma è chiuso, non si può andare, e poi non c’è niente da vedere. No, non fotografare, attento che ti prendo la macchina. Clic. E ora vai, che anche noi dobbiamo andarcene. Finisco di tagliare questi rametti e poi ce ne andiamo col pulmino. E’ stato un caso che hai trovato il cancello aperto, che è sempre chiuso.

Faccio un giretto tra gli orbi abusivi che sorgono dopo la cascina, lungo il muro dei depositi Atm. Anche qui lucchetti, recinzioni, chiusure. Un gatto mi guarda immobile. Passa un signore anziano, dice che gli orti sono una bella cosa per i pensionati, uno svago, solo che adesso ci sono troppi stranieri. Hanno le loro alcove laggiù in fondo, ci dormono la notte, e lasciano tutto sporco.

Tornare al luogo

C’è vita, qui alla cascina  Molino Dorino e nei suoi dintorni. E’ uno spazio ai margini, interstiziale, risultato casuale della dispersione urbana, ma non del tutto vuoto e abbandonato. Una sorta di enclave, che ospita pratiche dell’abitare nascoste e in parte clandestine. E’ quindi ancora un luogo, ma un luogo debole, separato. Dall’identità sospesa, incerta.

Eppure la cascina Molino Dorino è un luogo ricco di segni, di oggetti, di tracce, che raccontano una storia secolare. Esso potrebbe dispiegare il suo potenziale senso di luogo compiuto se solo assumesse una forma riconoscibile aperta al mondo. Questo luogo ha bisogno, per continuare a vivere, di tornare a se stesso, di recuperare una capacità espressiva e relazionale autonoma, distintiva. La cascina Molino Dorino – ora che si sa che non verrà più demolita e attende di essere riqualificata – può diventare un luogo del futuro di Milano città dei luoghi. Città delle cascine.

Ma io voglio vedere a tutti i costi la ruota del mulino, prima di andarmene. Il mulino ad acqua lungo il fiume è stato un luogo indimenticabile dei giochi della mia infanzia. Un luogo bianco che profumava di farina, come la faccia e i vestiti del mugnaio. Un luogo fantastico metafora del tempo, della trasformazione, della vita. Non dovremmo mai smettere di ricordarlo e amarlo il mulino che è in noi.

Incontro un altro pensionato che si sta recando all’orto. Ma come si arriva a questa benedetta ruota del mulino? Dalla cascina no perchè è tutto chiuso. L’unica è andare dall’altra parte, sulla tangenzialina. Tornando verso il piazzale della metropolitana incrocio il pulmino blu degli ucraini. Lui mi sorride da dietro il vetro, ci salutiamo. Arrivo al piazzale dei bus, noto una macchina della polizia ferma nel punto in cui devo passare io. Mi accendo una sigaretta, aspetto che se ne vada.

Scavalco il guard-rail, cammino in contro mano lungo il ciglio della scarpata della strada provinciale. Ed eccola là, finalmente, la ruota del mulino, dietro la rete, seminascosta dalle frasche degli alberi. Clic. Si vede soltanto la parte superiore. Ha tutte le pale arrugginite. Niente di che, come visione. Sarebbe bello se un giorno quelle pale riprendessero a ruotare e tutto il mulino ricominciasse a macinare nuove storie.