Lidia Tebaldi (1932)
Io sono Lidia Tebaldi, nata il 16.3.32 al confino politico, perchè mio papà era un socialista epurato dalle ferrovie dello Stato, avendo fatto un grande sciopero per la morte di Matteotti. Poi, col passare degli anni, sono arrivati a Milano e io sono cresciuta a Milano. Andata a scuola in viale Romagna, tra uno schiaffo e l’altro perché non portavo la divisa fascista, e abitavo in piazza Ferravilla al 3. Mia mamma aveva negozio di sartoria. E lì abbiamo vissuto la guerra, le deportazioni di mio fratello e di mio papà, finché è arrivato il giorno del 25 aprile.
Il giorno del 25 aprile eravamo sulla porta del negozio. Il negozio, era un bel palazzo, era situato tra un comando fascista e un comando tedesco. E il comando fascista era la Muti, che era il peggiore di Milano, in via Andrea del Sarto. E lì hanno ucciso, ne hanno fatto di ogni colore. E il giorno del 25 aprile eravamo sulla porta del negozio, io e mia mamma, pensando dove era mio papà, che era un capo partigiano, di Prato Centenaro. Mio fratello ha compiuto i 20 anni in campo di concentramento, perché non ha voluto mettere la divisa della Repubblica di Salò. E mio fratello maggiore era un anno che non sapevamo dov’era, non avevamo notizie, perché con l’esercito era allo sbarco americano nel Meridione. Veniva su con gli americani, ma non potevano scrivere.
Lì abbiamo vissuto il nostro 25 Aprile. Poi, dopo un po’, io sono andata in giro e sono andata davanti alla sede della Tonoli [legione “Muti”]. A mezzogiorno, arrivavano i partigiani, hanno sfondato i cancelli e noi lì a vedere. Dentro c’era un povero cretino, un povero fascista, che l’hanno fucilato. E poi i partigiani han dovuto uscire perché c’erano tutti i muri imbrattati del sangue degli antifascisti che torturavano. Hanno chiuso il cancello e io sono tornata a casa e siamo rimasti lì. Via i tedeschi – che non se ne volevano andare, ma con l’intervento del Schuster han dovuto andarsene -, fuori i tedeschi, dentro i partigiani.
I partigiani vedono lì che cuciono, e uno viene e dice, in pavese, “Sciura, l’adgustereb li braghi al me capitano?”E mia mamma dice “Sì, sì, tutto quello che avete bisogno, sono una partigiana anch’io”. “Oh, ” ha detto “meno male, non abbiamo bisogno di aggiustare le braghe, ma abbiamo fame… C’è avanzato solo una cesta di uova crude”. Questo erano le quattro del 25 aprile. E allora le han portate lì, mia mamma, la portinaia, han fatto le frittate.
Queste frittate per me hanno una storia, perchè fra questi partigiani siamo diventati cognati… Erano partigiani dell’oltre Po pavese di Santa Giuletta. Mio cognato era uno dei partigiani, sian diventati cognati! E allora lui dice a uno di quelli “T’el ricordi cus t’è magnà il 25 april?”. E lui fa “Per Dio, se me ricordi. Ghè vegnu una bella putina biunda cun li fritade in man!”.
I fascisti son scappati, e poi uno l’hanno preso e fucilato il giorno dopo, qui in piazza Guardi, e io sono andata a vederlo fucilare. E hanno scritto anche su un libro dicendo che io ho detto che ho assistito a un funerale col morto che camminava. Perché aveva le gambe di legno, lo chiamavano El Giurgin gamba de legn. I partigiani l’hanno preso dalle braccia, gli hanno fatto fare viale Romagna, e dietro la gente così. E io ho detto che abbiamo assistito al funerale col morto che camminava. L’hanno portato lì, c’era una casa bombardata, gli hanno sparato. E io poi sono andata lì, gli ho detto “Te s’è mort, te me fe più paura”.