Le finestre di Béla Tarr è il titolo di un mio video footage dedicato al grande regista ungherese, da me scoperto solo di recente, che presento qui di seguito. Prima voglio però dedicare qualche parola all’importante ruolo che le finestre occupano nel cinema.

Finestra e cinema si assomigliano molto, condividendo la stessa finalità, lo stesso pensiero. Entrambi sono cornici che ritagliano alla vista frammenti di mondo: inquadrature. Inoltre, non c’è film in cui non appaiono prima o poi una o più finestre: un raddoppio dello stesso atto dell’inquadrare, una sorta di mise en abyme. Spesso la finestra dà forma all’intera narrazione cinematografica o a suoi momenti e passaggi significativi. Basti solo pensare – un esempio tra i tanti possibili – al famoso film di Hitchcock La finestra sul cortile, dove finestra sta per cinema e cortile sta per mondo.

Nella vita quotidiana, e nel cinema, ci sono tante altre cornici che inquadrano, e a volte riflettono. Ma nessuna di esse gioca con il mondo come gioca la finestra: apertura e chiusura insieme, esteriorità e interiorità, luce e ombra, visibile e invisibile. E’ lo stesso modo di essere della porta d’ingresso di un edificio, altra cornice-interfaccia dell’abitare già oggetto di un articolo in questo sito. 

La differenza è che la porta gioca più con il movimento e la finestra con lo sguardo. Anche da una finestra si può entrare e uscire, ma è l’eccezione del ladro o di uno stato di emergenza. Analogamente, anche da dietro la porta di una casa si può guardare il mondo esterno, ma difficilmente contemplarlo. C’è una diversità “ontica” di posture e di durate.

Prima di diventare, a partire dal Rinascimento, un “dispositivo” ottico, la finestra era una semplice apertura sul muro di un edificio, poco più di un buco, per arieggiare e illuminare gli interni. Poi il mondo, con l’invenzione del paesaggio, si è fatto finestra e la finestra mondo. L’arte è diventata veduta e, spesso, rappresentazione di chi osserva in solitudine il mondo stando alla finestra. La veduta di una veduta. E’ l’uomo, tra i tanti, di Edward Hopper. E’ anche l’uomo di Béla Tarr.

Edward Hopper, Morning Sun (1952)

Le finestre di Béla Tarr

Ho scoperto i film di Béla Tarr grazie alla reclusione casalinga dovuta a Covid 19. Ho impiegato due interi pomeriggi per visionare al computer Satantango, un’opera fiume di oltre sette ore. E’ un vedere lento, lentissimo, che svolge attese e concatenamenti senza fine, generando emozioni a volte molto intese. Un cinema delle rovine, di persone inermi e disperate inghiottite dalla storia. E’ forse proprio per questa sua natura terminale che ci appare un grande cinema degli affetti, della vita e della morte.

“E’ impossibile fare un film se non hai una finestra”, ha detto una volta Béla Tarr. Un uomo – più raramente una donna – che guarda immobile alla finestra è in effetti una delle figure più ricorrenti di tutto il cinema tarriano. “Me ne sto seduto davanti alla finestra e guardo fuori inutilmente,” confida Karrer alla sua amante in Perdizione. E’ la finestra di un’attesa infinita, che separa nettamente l’esterno luminoso dall’interno ombroso, che chiude senza aprire. E’ un confine insuperabile, davanti al quale si ferma la stessa macchina da presa. Questa cornice del guardare o dello spiare senza essere visti è tutto quello rimane, l’ultimo ancoraggio. Là fuori si muovono i fantasmi degli altri, delle altre solitudini di cui non ci si può più fidare. Camminano incerti nello scialbo e sconfinato paesaggio della “putza” ungherese perennemente battuto dal vento e dalla pioggia.

Quando la luce viene meno, le finestre di Bèla Tarr si spengono e non rimane più nulla da vedere. Il vecchio e alcolizzato medico di Satantango decide di oscurare per sempre la sua finestra-osservatorio inchiodandovi sopra delle tavole di legno. Nel finale di Il cavallo di Torino padre e figlia si scambiano le ultime parole in una notte “bekettiana” fattasi eterna. La tempesta di vento cessa, un silenzio di tomba cade sul mondo e sulla casa. Nulla può più succedere perché tutto è già successo. Dopo Il cavallo di Torino del 2011, Béla Tar smette di fare film perché, come lui stesso afferma, non ha nient’altro di nuovo da dire. Una coerenza rara, che rende il suo cinema ancora più prezioso ed eroico.