Sembra che ogni giorno vengano caricate sul web due miliardi di immagini. La percezione di ciascuno di questi flussi visivi dura il tempo di un clic. L’ipertrofia visuale della rete si traduce di fatto in una sorta di “visibilità invisibile”, di entropia visiva, che genera un più o meno immediato effetto di sepoltura delle immagini. Il web – con tutte le sue piattaforme e i suoi dispositivi, da Facebook a Flickr allo smartphone – è lo sterminato cimitero delle immagini abbandonate. E’ un’ immensa archeologia di tracce iconiche intermittenti, destinate a scomparire in un istante dalla vista, come certi salmoni che muoiono subito dopo aver deposto le uova. Mentre molte altre immagini sepolte, mai neppure adocchiate, riposano in pace nel fondo immemore degli hard-disk.

L’occhio-clic

Perché allora continuiamo a produrre immagini come forsennati e a riversarle nei tanti meandri della rete se nessuno le vede o le guarda realmente? L’occhio-clic non è un vedere, e forse neppure uno scorgere, ma è più propriamente un occhio accecato dalla sua stessa volatilità, dalla sua stessa vista ipertrofica. E il solo vedere non sarebbe in ogni caso un guardare, quel guardare lento e magari assorto che meriterebbe in teoria ogni immagine per il solo fatto di esistere. Sì, proprio ogni immagine, con la sua unicità e il suo “diritto allo sguardo”. Come quando guardavamo, e non soltanto vedevamo, le amate fotografie di carta dell’album di famiglia.

Perché quindi abbiamo bisogno di questa moltitudine di apparizioni sfuggenti, di tutti questi bagliori senza durate che noi stessi contribuiamo a creare? E’ un bisogno indotto soltanto dal fatto che abbiamo in mano un cellulare o una “compattina” digitale facile da usare? Ci potrebbero essere tante e differenziate ragioni, ma non è qui il luogo per analizzarle. Io credo che il motivo fondante sia il senso e il desiderio di realtà, di presenza nel mondo, prodotto in noi dall’iconosfera globale (non esauribile nel solo web) che in ogni momento del giorno ci avvolge. E che, un po’ come la coperta di Linus, ci rassicura, sostenendo le nostre fragili e inquiete identità.

Noi siamo e viviamo a nostra immagine e somiglianza e con l’immagine che siamo vogliamo partecipare alla creazione quotidiana del mondo, del suo immenso reality show. Siamo tutti produttori e distributori di immagini, e non solo più semplici fruitori. Con le nostre piccole protesi tecnologiche visive, comunicative e relazionali ci aggiriamo nel mondo affamati di realtà, per dirla con il famoso libro di David Shields.

Riusi

Nel 1989, l’artista tedesco Joachim Schmid, definito come il “fotografo che non fotografa”, ha detto: “Nessuna nuova fotografia finchè non siano state utilizzate quelle già esistenti!”. Eravamo ancora in epoca analogica e Schmid raccoglieva e catalogava migliaia e migliaia di fotografie cartacee recuperate in vari modi. Fotografie qualunque, anonime, amatoriali, dimenticate o perdute o buttate via, che con il riuso successivo tornavano a nuova vita, entrando nel territorio dell’arte. Un vero e proprio, nonché imponente, readymade fotografico, inserito nel solco delle pratiche artistiche basate sull’oggetto ritrovato e sviluppatesi da Marcel Duchamp in poi. Schmid sarebbe poi passato al riciclaggio delle immagini digitali, mettendo mano al miliardario archivio di Flickr e, un po’ contraddittoriamente a quanto dichiarato vent’anni prima, esortando la gente a continuare a fotografare.

Sono ormai molte le pratiche di riutilizzo creativo di immagini fotografiche prelevate dal web.  Non saprei dire però quanto esse siano diffuse nel campo delle immagini video, con la miniera senza fondo di You Tube in primo piano. Ho la sensazione che il found footage video sia ancora poco utilizzato rispetto alle sue potenzialità. Io stesso ho provato a realizzarne uno, utilizzando le registrazioni di webcam installate nelle stazioni sciistiche di rinomate località montane europee. Il video, che presenterò meglio in un prossimo articolo, è visibile alla mia pagina Vimeo. Alcuni anni fa, con Sintropie, avevo invece creato una sorta di racconto fotografico servendomi di Google Street View. In entrambi i casi l’attenzione è suoi luoghi e sulle persone nei luoghi.

Joachim Schmid, Archiv #103, 1990

Perchè riciclare immagini

Riusare le immagini digitali che a vario titolo pascolano (più o meno libere dai cosiddetti diritti di autore) nelle incommensurabili praterie della rete si può e si deve fare. Si può perché è tecnicamente facile farlo, non costa nulla, e non c’è che l’imbarazzo della scelta. Semmai la difficoltà vera risiede nel ricercare e selezionare le immagini pertinenti di cui si ha bisogno, una ricerca che a seconda della natura e delle finalità del progetto intrapreso può risultare lunga e impegnativa.

Si deve e ha senso farlo per almeno due ragioni di fondo. Primo, per una questione ontologica, perchè ogni immagine, anche quella esteticamente più povera, merita attenzione e rispetto, essendo l’espressione di un desiderio, di un pensiero, di una libertà, della voglia di esserci e di stare con gli altri. Le nostre fotografie, i nostri video amatoriali, sono sempre le immagini di qualcosa che accade intorno a noi e che ci riguarda da vicino. Sottrarle all’oblio omicida dell’occhio-clic e farle vivere nell’apertura accogliente e valorizzante dello sguardo: come quando guardiamo un paesaggio dalla riva del mare, dalla cima di un monte, dalla finestra.

Essere un  flaneur visuale, vagabondare, perdersi tra gli infiniti spazi-immagini della rete, della città-mondo, costruendo percorsi e realtà finite e dotate di senso: è forse questo che dovremmo imparare a fare meglio. Il problema non è tanto il pur reale e condizionante eccesso di saturazione e ridondanza visiva del mondo, quanto il come e il perché decidiamo di “stare” tra e con le immagini nostre e degli altri. Il problema è, come sempre, nello sguardo in cammino e nel cuore che batte.

Hans-Peter Feldmann, Trypticon, Seated Woman

Una nuova grammatica della visione

In secondo luogo, il riuso non solo porta a nuova vita immagini “vernacolari” più o meno dimenticate, scarti, spazzature iconiche, ma induce l’elaborazione di una nuova grammatica della visione, che è la cosa di cui forse abbiamo oggi più bisogno. Esplorando e riciclando le immagini in rete scopriamo come queste possano dire più di quanto dicano, esibire differenze e analogie linguistiche, mostrare connessioni impensabili, diventare le tessere di nuovi racconti. E a volte, con un po’ di fortuna, possiamo imbatterci in qualche tesoro nascosto. Probabilmente sta oggi nascendo nel web un nuovo statuto dell’immagine, una nuova estetica, di cui non riusciamo ancora a cogliere bene i significati, le ricadute, i possibili sviluppi futuri.

Prestando attenzioni e cure alla produzione diffusa delle immagini qualunque, non facciamo che moltiplicare gli strumenti e le occasioni per una migliore conoscenza del mondo in cui viviamo. Divertiamoci dunque a giocare con le immagini comuni della vita quotidiana, a costruire dei lego visivi, a comporre e scomporre puzzle a nostro piacimento, rendendo straordinario l’ordinario. Per questo vorrei concludere qui con una piccola proposta, non so quanto originale, ma che potrebbe comunque indurre nuovi giochi: perché, al di là dei singoli eventi d’autore, non pensiamo a dar vita a festival, rassegne, luoghi di raccolta e scambio delle immagini riciclate?