Grazia Deledda è ancora oggi la prima e unica donna italiana ad aver ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura. Accadde il 10 dicembre 1927, un sabato, a Stoccolma, dove la scrittrice era giunta qualche giorno prima insieme al marito per ritirare l’ambito premio. Quel lungo ed estenuante viaggio per terra e per mare verso il gelido nord è raccontato nel film Viaggio a Stoccolma di Gabriella Rosaleva. In quello stesso lontano e indimenticabile dicembre, il poeta e sacerdote sardo Pietro Casu componeva la canzone natalizia In sa notte profundha. La notte che rivelò al mondo intero un’ignota scrittrice, ignota come l’angolo di terra in cui era nata nel 1871, Nuoro, paese di cinquemila anime sperduto tra le montagne della Sardegna interna.
Nuoro dove?, quando proprio nel 1927 il paese, nel frattempo cresciuto a 9.000 abitanti, era diventato capoluogo della neoistituita provincia, iniziando il suo percorso di trasformazione in città, che fu piuttosto rapido. Deledda chi? E’ relativamente da poco, in Italia come in Sardegna, che l’autodidatta Grazia Deledda viene messa tra i “grandi” della letteratura, anche se grande lo è sempre stata. Io stesso l’ho “scoperta” soltanto una decina d’anni fa, su 73 che ne ho oggi. E quando ne consiglio i libri, qualcuno continua a dirmi: “Ah, non la conosco”.
In questo articolo non parlo – e nemmeno sarei titolato a farlo – del valore letterario delle opere di Grazia Deledda. Basti dire che mi piacciono molto: Canne al vento, Cosima, Il paese del vento, Il segreto dell’uomo solitario. E Cenere, con il volto straziante di Eleonora Duse nell’omonimo film muto del 1916. L’oggetto sono le targhe contenenti citazioni tratte da romanzi deleddiani affisse sui muri delle case dell’antico quartiere Santu Predu di Nuoro. Una di queste è la casa natale di Grazia Deledda, oggi casa museo, che la scrittrice abbandonò all’inizio del nuovo secolo per non farvi più ritorno. Se ne andò con il fidanzato a Roma, perché a Nuoro le mancava l’aria, la libertà di essere la donna che voleva essere, una donna che ama e che scrive. A Roma si sposò, ebbe due figli e morì il giorno di Ferragosto del 1936 per un tumore al seno.
Sui muri di Grazia
La prima targa è affissa sulla facciata cieca di un grande edificio vuoto e fatiscente all’angolo di piazza Pirari. Siamo alla fine, o all’inizio, di Santu Predu, nei pressi del cimitero monumentale di Sa ‘e Manca e della Solitudine. E’ crepata, come il muro che la sostiene, ma la scritta che vi è incisa sopra si legge ancora bene. E’ lì da almeno una ventina d’anni, credo. Riporta l’incipit di L’incendio nell’oliveto, il romanzo che Grazia Deledda pubblicò a puntate tra il giugno del 1917 e l’aprile del 1918. Un avvio intenso, teatrale, con la subitanea entrata in scena di nonna Agostina, matriarca indiscussa della casa e della famiglia. In poche righe tutto un ritratto, una vita, un mondo.
Il mio cammino prosegue nella lunga via Chironi e in altri vicoli del quartiere, lo sguardo rivolto spesso verso l’alto. Riprendo le targhe dal basso, con lo smartphone, a volte facendo delle panoramiche. Non solo le targhe, ma anche quello che si muove intorno. E’ una passeggiata letteraria e visiva insieme. Un piccolo documentario in occasione del 150° anniversario della nascita di Grazia Deledda.
Costeggio i muri delle case, ora basse ora più alte, che delimitano e nascondono, ma anche rivelano. Sono muri che parlano, specie quelli più antichi: lavagne. E’ un lungo racconto fatto di tracce, scritte, decorazioni, incisioni, intonaci, calcinacci, pietre, fessure, colorazioni, macchie, fili, ferri, tubi, pali, erbe, e tanto altro ancora. Tra vuoti e pieni, abbandoni e riusi, luci e ombre, passato e presente. Tutta una minuta e capillare stratificazione di segni del tempo che sarebbe bello fotografare e interrogare.
Una breve citazione mi sorprende, sul muro rossastro di una bella casa di via Chironi, posta accanto a uno dei rari balconi fioriti. “No, non è una cosa egualmente facile capire le cose e spiegarle”. Proviene ancora da L’incendio nell’oliveto, come diverse altre. Sembra voler dire che in certe situazioni di travaglio interiore è difficile esprimersi trovando le parole giuste. Grazia era anche una saggia.
Sui muri di Grazia (link al video)
Segni e suoni
Diverse targhe sono diventate quasi illeggibili, alcune hanno perso i pezzi. E’ lo stesso destino delle antiche case abbandonate che crollano, cui ho dedicato un precedente articolo. Santu Predu non è però un quartiere fatto soltanto di vuoti e rovine, ma anche e soprattutto di attaccamenti tenaci, di rifacimenti e nuovi spazi di vita. Non sono poche le intraprese coraggiose nate negli anni recenti, come la galleria d’arte MANCASPAZIO, per fare un esempio. E nel cuore del quartiere una bella insegna colorata annuncia la prossima apertura di Carrales, una guest house di nuova concezione.
Piazza del Rosario è il biancore della sua chiesa, un catino sghembo di luce e suoni. Un luogo un po’ zen, contemplativo, forse anche il più “acustico” di Santu Predu. Le quattro targhe presenti riportano passi tratti da Elias Portolu, il romanzo più russo di Grazia Deledda, che ammirava Dostoevskij. Delle due targhe poste sulla bianca facciata del Bar Chez Christine rimane ben poco, tante parole sono scomparse, staccandosi dalla pietra della targa. Polvere volata via con il vento, magari in cielo, chissà quando. Non sono più tornate, lasciando soltanto delle ombre, dei ghirigori grigiastri, dei segni muti. “Finalmente giunse il giorno partenza. Era una domenica, tutto era pronto e là viste”. E’ bello anche così, incomprensibile e con quest’aura da reperto archeologico.
“Che bello sentire le persone che cantano“
Più che le immagini ora sono i suoni, presenze invisibili, a guidare il mio cammino. Una porta che sbatte. Passi che passano. Una musica alla radio. Voci lontane e vicine. Cinguettii. Latrati. Motori e motorini. Boati. Echi. Le campane di mezzogiorno della chiesa del Rosario che inondano la piazza, l’angolino “provenzale” di Christine, dove due giovani donne chiacchierano sedute ai tavolini. Mi fermo ad ascoltare e registrare il canto emozionato di una ragazza che si spande nell’aria da una finestra spalancata al sole nei pressi di piazza Salvatore Satta. Un passante si avvicina e mi dice, chiudendo il video: “Che bello sentire le persone che cantano, quasi quasi mi trattengo”. Il paesaggio sonoro di Santu Predu è punteggiato da suoni per lo più isolati, puliti e rarefatti, vibrazioni che si staccano dal silenzio, rafforzando il senso di tranquillità della vita del quartiere. Luoghi della lentezza non solo da guardare con gli occhi, ma anche da ascoltare con le orecchie. E con il cuore, sempre.
“I contadini gridavano accorrevano da tutte le parti i cavalli e i cani invece fuggivano”. E mi sembra di vederli e di sentirli.