Fonni, con i suoi 1000 metri di altitudine, è il paese più alto della Sardegna, posto sulle pendici del Gennargentu, il tetto della terra sarda, che tocca i 1834 metri con la vetta di Punta La Marmora. L’immaginazione aerea, ascensionale, nel cielo delle terre alte, il vasto massiccio montuoso del  Gennargentu, che è come un altro mare. Qui lo sguardo naufraga nel silenzio ostinato di un paesaggio immenso, vagando in una lontananza circolare, infinita, di chiari e scuri, di onde luminose. Ora domina il giallo rugginoso dell’estate, così diverso dal biancore più segreto dell’inverno, con la neve, quando Fonni diventa la vera Fonni.

Fa caldo, ma è un caldo più secco e sopportabile di quello delle terre basse. Il cielo è un lastra blu un po’ sbiancata dall’afa.

I dintorni sono punteggiati da numerose testimonianze archeologiche della misteriosa epoca nuragica. Mia moglie raccoglie da terra un pezzo staccatosi dall’insegna indicante l’ingresso alle tombe dei Giganti di Madau, cercando di ricomporla. Non proprio un’entrata degna, ma si tratta soltanto di antenati morti molto tempo fa, di un vecchio cimitero campestre. Riposano da millenni tra grandi massi di granito, all’ombra delle querce, nelle tanche assolate di questo affascinante posto che si chiama Pratobello. Da questi parti, tra il 9 e 19 Giugno del 1969, i cittadini di Orgosolo si radunarono e lottarono per impedire l’occupazione militare di terreni da sempre adibiti a pascolo, cacciando via soldati e carabinieri. Qualcosa di molto simile successe anche a Larzac, piccolo paese francese della Dordogna, dove la lotta durò però dieci anni, come racconta un murale della via centrale di Orgosolo, oggetto di un mio video fotografico di dieci anni fa. I corpi di quelli genti in rivolta sono resistenti come le pietre megalitiche di Madau, memoria profonda della terra. Sarebbe ancora più bello se ora passassero in cielo delle nuvole, penso, con la forma di quelle pietre o di quelle persone, di quei Giganti.

A sinistra una delle tombe dei Giganti di Madau. A destra un’immagine della rivolta di Pratobello del Giugno 1969 – Fonte Wikipedia

L’immagine mancante

Poco più avanti dei Giganti, dicono le informazioni, si trova il villaggio nuragico di Gremanu. Il navigatore conferma “sei giunto alla tua destinazione” e poi tace, soddisfatto. Ma il villaggio dov’è? Nessuna segnalazione, neppure una targa sgangherata come quella delle tombe. Il nulla sotto un sole implacabile. C’è una stradina sterrata chiusa da un cancello che avanza verso un raggruppamento di alberi. Forse si passa da lì, dev’essere proprio dietro quegli alberi laggiù. Bisognerebbe scavalcare. Con una suocera di 96 anni sulle spalle di un ultrasettantenne.

Torniamo in paese con le immagini mancanti delle pietre sacre di Gremanu. Ci sarebbero quelle di You Tube, ma è diverso. Un’immagine mancante è un’immagine promessa e desiderata, che poi, per qualche motivo più o meno assurdo, si nega allo sguardo. Un’immagine nascosta, sepolta nel bosco. Un giorno torneremo a Gremanu per disseppellirla, mi dico senza convinzione. Magari ritroverò anche i miei occhiali da vista, spariti inspiegabilmente in qualche anfratto nuragico tra Madau e Gremanu.

Siamo molto delusi e anche arrabbiati per queste immagini mancate. Le migliaia di pietre nuragiche sparse in tutta la Sardegna sono l’oro di quest’Isola, patrimonio dell’umanità, un valore unico inestimabile, ma spesso lasciato alle ortiche. E’ che con le pietre non si mangia, direbbe qualcuno. E non va molto meglio la mattina del giorno dopo con il nuraghe Dronnoro, visto da lontano dietro fili spinati e le sbarre di un’altro grande cancello chiuso. Come in prigione. Altro che “su connottu”.

Nuraghe Dronnoro – Fotogrammi tratti dal video “Weekend a Fonni” di Sandro Lecca

Murales

Grazia Deledda, nel suo romanzo Cenere del 1904, descrive Fonni come “quel bizzarro paese adagiato sulla cima di un monte come un avvoltoio in riposo”. In effetti è un paese faticoso, fatto di salite che tolgono il fiato. Lo spazio scosceso è come suddiviso in terrazzamenti che lo rendono accessibile. Pochi sono i tratti in piano, dove si concentrano i luoghi della socialità costituiti soprattutto dai bar. Vecchie abitazioni in pietra, non raramente lasciate in uno stato di abbandono e degrado, convivono  con “casoni” grigi in cemento o blocchetti edificati più di recente. 

La fatica dei saliscendi è ripagata dalla vista di bellissimi murales naturalistici, che invitano alla sosta. Ritraggono per lo più figure e scene della vita passata del paese, ne sono la memoria dipinta sui muri delle case, il filo identitario che lega passato e presente. Caratterizzati spesso dall’effetto illusionistico del trompe-l’oeil, sembrano a volte dei veri e propri tableaux-vivants, quadri viventi. E’ come se quel vecchio pastore o quell’anziana donna abitassero davvero ancora lì, affacciati alla finestra o stando sulla porta di quella casa. Che è la casa di oggi, ma anche quella di ieri, che non c’è più.

Ma cosa vedono oggi gli occhi di quegli antenati che sporgono dai muri? Di certo non vedono più quel “bizzarro viavai di cavalli, di cani, di pastori vecchi e giovani” di cui parlava la Deledda. Vedono semmai il viavai, forse ancora più bizzarro, delle automobili, in strade e “straduccole” spesso totalmente prive di persone in cammino. Muovendosi, ma anche stando ferme, parcheggiate a gruppi, come sciami metallici, vicino agli ingressi delle abitazioni. Dappertutto, specie di notte.

Fonni, murale con macchine – Fotogramma tratto dal video “Weekend a Fonni” di Sandro Lecca

Automobili

Tutte le volte che mi capita di camminare tra le vie di un paese, di montagna come di pianura o di mare, questa “automobilizzazione” spinta dello spazio è la cosa che più mi colpisce e disturba. Anche nel piccolo paese, la cui morfologia urbana originaria non era certo pensata per le auto, la gente non va più a piedi. Questi fuoristrada che rasentano i muri procedendo a passo di lumaca in un vicoletto quasi più stretto di loro, come ho visto diverse volte succedere a Orosei, sono una follia. E’ venuta meno la dimensione circolare e comunitaria degli spazi di vita, trasformatisi in semplici linee rette, geometrie di attraversamento, dove conta soltanto il tempo di percorrenza. Casa e strada hanno perso, anche nei paesi e non solo nelle città, quella relazione di continuità e scambio che stava alla base del senso dell’abitare. 

In molti casi, come nei tanti paesi della Sardegna interna in via di spopolamento, a venire meno sono le persone stesse. Tra il 2004 e il 2020 la popolazione residente di Fonni è diminuita del 12,4% mentre il parco veicolare, costituito in grandissima parte da automobili private, è cresciuto del 32%. Le famiglie fonnesi, il cui numero è rimasto sostanzialmente stabile, possiedono mediamente  2 macchine a testa. Siamo così sicuri che i paesi, come spesso si dice,  siano i luoghi della “lentezza”?  Non sarà che il tempo lento dei paesi stia diventando sempre più un tempo vuoto attraversato dal tempo pieno, veloce e indifferente, delle automobili? Non sarà che una vita diversa e più sensata significhi anche andare di più a piedi e di meno in macchina? Che servono più persone e pedoni che motori a scoppio e automobilisti?