Cinema e nuvole appaiono intrinsecamente legati da un tratto comune distintivo: il movimento. Il cinema è immagine-movimento, così come le nuvole passanti nel cielo, che ricevono forma dal movimento. Tutt’e due “scorrono” davanti al nostro sguardo meravigliato, felice. “La visione del movimento dà felicità,” scrive Robert Bresson nel suo Note sul cinematografo. Una nuvola appare e scompare e la stessa cosa può dirsi per la singola inquadratura di un film. Entrambe sono parti in continua evoluzione di un tutto infinito.
Le somiglianze tra il cinema e il cielo-nuvole non finiscono qui. La nuvola non è soltanto una formazione atmosferica di vapore acqueo condensato in minuscoli cristalli di ghiaccio. E’ anche un disegno, una forma mutante, i cui colori e ombre sono dovuti all’interazione di fenomeni di rifrazione e diffusione della luce. Un nuvola, come il cielo, è un riflesso e l’immagine cinematografica che la ritrae è il riflesso di un riflesso. E ovviamente, poi, sono molti i film che nei loro titoli contengono la parola nuvola o nuvole.
Credo che in tutta la storia del cinema non vi sia quasi film in cui, prima o poi, non compaiono delle nuvole. Anche in film completamente girati in interni, una finestra, una porta, un pertugio, può sempre aprirsi all’esterno rivelando e incorniciando un cielo di nuvole. L’universo atmosferico – con i suoi diversi eventi – incombe sempre, come un infinito fuori campo, anche sonoro, su qualsiasi immagine. Il tempo non è soltanto il suo trascorrere, ma è anche la sua materia, “il tempo che fa”, la sua sostanza luminosa, la meteorologia. E’ l’interrogativo che ci poniamo ogni mattina appena svegli, guardando il cielo da una finestra: “Com’è oggi il tempo”? Quando piove è tutto diverso da quando c’è il sole, comprese le nostre anime, i nostri pensieri, i nostri sguardi.
Cosa sono le nuvole
Nella scena finale del cortometraggio Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini le due marionette Jago (Totò) e Otello (Ninetto Davoli), ormai inservibili, vengono gettate tra i rifiuti di una discarica abusiva. Quando riaprono gli occhi, guardano incantati il cielo, che vedono per la prima volta. E’ la prima volta che escono dal teatro dei burattini per andare nel mondo, un mondo-spazzatura.
Otello: Iiiih, che so’ quelle? Jago: Sono… sono le nuvole… Otello: E che so’ le nuvole?Jago: Boh! Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle! Jago: Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!
Quelle nuvole sono il cinema, il grande cinema – il mistero della vita, che si rivela nel momento della morte. E’ accaduto, accade e ancora accadrà in altri film. Ad esempio in Sanshiro Sugata, il film di esordio di Akira Kurosawa del 1943, con la straordinaria sequenza del combattimento mortale tra Sanshiro e il suo rivale in arti marziali Higaki. La scena si svolge tra l’erba alta e ondeggiante di un colle spazzato dalla furia del vento e oscurato da un coacervo di nubi tempestose che sfrecciano in cielo. Sanshiro sta per soccombere strangolato dall’avversario. All’improvviso gli appare in visione una nuvola pulsante di luce, che gli schiude gli occhi ormai spenti, rifondendogli le energie e salvandogli la vita. Nuvole miracolose, che aiutano, come quelle del finale di Miracolo a Milano, il capolavoro di Vittorio De Sica del 1951.
Perché le nuvole, con le loro forme frattali imprevedibili, sono per noi umani così belle e ci piace contemplarle? Anche se, a dire il vero, lo facciamo meno di quanto dovremmo e potremmo fare, presi più dal chiuso della terra che dall’aperto del cielo. Amiamo le nuvole semplicemente perché con le nuvole ci innalziamo, diventiamo più aerei. E voliamo, viaggiamo con la fantasia e il pensiero, interrogando l’ignoto della vita. Perché passiamo “leggeri” sulla terra come le nuvole, che stanno lassù, lontane, ma che portiamo dentro di noi, nelle nostre anime di viandanti e sognatori inquieti.
Cinema e nuvole: i film
Mi piace, periodicamente, mentre rifletto e leggo intorno a un certo tema, andare a vedere come questo viene trattato nel cinema, attivando anche pratiche del tipo found footage film. L’ho fatto con le finestre di Béla Tarr, le ombre di Ingmar Bergman, gli oggetti di Jacques Tati, le porte di Ernst Lubitsch, cui ho dedicato articoli in questo sito. Con cinema e nuvole, l’operazione è risultata più complessa e faticosa, perché mi sono mosso tra le opere di tanti autori e non di uno solo.
Ho navigato a lungo nel web, alla ricerca soprattutto di testi, senza trovare quasi nulla sull’argomento. Strano. Ho realizzato quindi un video montaggio di brani o frammenti di film in cui le nuvole rivestono un ruolo importante nello svolgimento di singole scene, se non, ma accade di rado, dell’intero film. Film in buona parte “ritrovati”, amati nel tempo, altri scoperti per la prima volta. Appartengono a epoche diverse (dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore) e a generi differenti (dal narrativo allo sperimentale al documentaristico). Dalle nuvole vorticose di The movement of clouds around Mont Fuji (1929) di Masanao Abe a quelle magiche di Memoria (2021), l’ultimo straordinario film di Apichatpong Weerasethakul. Passando per Akira Kurosawa, Roberto Rossellini, Artavazd Pelejan, Ingmar Bergman, Jean-Luc Godard, Joris Ivens, Jean Epstein, James Benning, Robert Flaherty, Sergej Ejzentsejn, John Ford, Howard Hawks, e altri ancora. Ma una sola donna, in un’arte da sempre piuttosto al maschile: Germain Dulac, originale personalità dell’avanguardia francese degli anni ’20, con una breve scena aerea di volti e nuvole tratta da L’invitation au voyage (1927).
Cinema e nuvole: la vertigine dello sguardo
In un’arte del meraviglioso e del movimento com’è per eccellenza il cinema, non potevano certo mancare le nuvole, potenti metafore della trasformazione e dell’elevazione. Tutte le volte che appaiono, lontane e irraggiungibili, producono una sorta di “effetto mondo”, di sconfinamento, di vertigine ascensionale dello sguardo. L’infinito fuori campo dell’universo, dell’invisibile di cui sono portatrici, fa palpitare l’inquadratura, rende fluido lo schermo, accende e muove la storia che il film racconta, aprendola all’imprevedibile. Le nuvole dimoranti in cielo non sono semplice cornici di contenuti narrativi più o meno espliciti, fondali naturali di supporto alle parole e alle azioni dei personaggi. Non si limitano a conferire maggiore profondità, plasticità o maestosità alle scene e a corrispondere agli “stati d’animo”, ora lieti ora drammatici, dei protagonisti. Non nuvole puramente evenemenziali, specchianti e paesaggistiche, ma molto di più. Esse dicono o fanno “sentire” e immaginare tutto quello che resta al di fuori della dimensione puramente discorsiva o razionale della narrazione. Una magia che appartiene soltanto al cinema.
Questa funzione epifanica o trascendentale delle nuvole la si percepisce in molte scene dei film considerati. La visione “celeste” e liberatoria del già citato Sanshiro Sugata ne è un esempio, cui se ne potrebbero aggiungere altri, di natura e significato diversi.
I titoli di coda di Cinema e nuvole scorrono su uno dei dieci cieli del bellissimo Ten Skies (2004) di James Benning. Dieci lunghissime inquadrature fisse di dieci minuti l’una per dieci cieli diversi tappezzati da grandi formazioni nuvolose, che si muovono a volte in modo quasi impercettibile. Un vero e proprio inno alla sostanza vaporosa, meteorologica, del tempo. Un tempo lento e interiore ben lontano dalle artificiose e francamente insopportabili accelerazioni “time lapse” cui spesso si riduce la rappresentazione audiovisiva delle povere nuvole che fuggono impazzite nel cielo come colte da isteria. Il cinema contemplativo e anticonvenzionale di Ten Skies ci invita a osservare le nuvole con lo sguardo stupito di un bambino, come se le vedessimo per la prima volta. Come le due marionette Jago e Otello prima di morire.