Nel cinema di Ernst Lubitsch le porte giocano un ruolo assolutamente fondamentale. In gran parte delle scene dei suoi numerosi e straordinari film compaiono una o più porte, poste al centro dell’inquadratura o sullo sfondo. A parte i poco frequenti esterni, non c’è interno che non sia  contornato da una veduta di porte. Mary Pickford definì il grande regista tedesco “un direttore di porte”.  Le parole dell’attrice canadese erano velenose, ma coglievano l’essenza del famoso touch di Lubitsch, fatto di allusioni e sotto testi, che le porte incarnano alla perfezione.

E’ un continuo aprire-chiudere porte, un entrare-uscire, un andare-venire, un apparire-scomparire. E anche un bussare, un ascoltare o un guardare di nascosto. Le porte separano e nello stesso tempo uniscono gli spazi dentro o attraverso i quali si svolgono le azioni. Danno forma a un mondo in cui i personaggi non fanno altro che passare da un luogo a un altro. Le porte dei film di Lubitsch sono le soglie non di spazi davvero vissuti, radicati nell’esperienza e nel ricordo, ma di spazi semplicemente attraversati. Essi sono i contenitori di accadimenti e inseguimenti, di gioie e dolori, di canti e sospiri, di trame “cucite” dalle porte. Non sono quindi le porte di casa, dell’abitare, ma quelle di una realtà sfuggente, traballante, che diventa definitiva soltanto nel breve scioglimento del finale, quasi sempre all’insegna dell’happy end. Sono insomma le porte dell’essere altrove, dell’essere spaesato.

Le porte di Lubitsch nascondono per rivelare e rivelano per nascondere. Dicono di più e meglio di quanto al loro posto potrebbero dire le parole o altre immagini. Costituiscono una vera e propria grammatica del non detto che dice, del silenzio che parla. Il ricorso a questa esplicita e costante allusività poteva essere in parte dovuto alla necessità di aggirare le limitazioni espressive imposte alle produzioni cinematografiche dal Codice Hays. Il codice entrò in vigore nel 1930, ma il touch – compreso quello delle porte – era già ben evidente nei precedenti film di Lubitsch, quelli appartenenti al periodo del muto. Basti vedere in proposito quel fantastico film che è The Oyster Princess, realizzato nel 1919. In Lubitsch, il racconto di una storia allude e rimanda sempre ad un’altra storia.

I personaggi dei film di Lubitsch sembrano a volte essere prigionieri degli spazi in cui si trovano. Ma per fortuna ci sono le porte, che non sono mai porte carcerarie. Esse possono essere intenzionalmente chiuse a chiave per difendersi dalle minacce esterne, facendo della stanza uno spazio del rifugio o del segreto. Sono chiusure provvisorie, perché presto la porta si riapre, conduce fuori, verso l’altro, o fa entrare l’altro in uno spazio di nuovo aperto. Una porta è il confine della libertà tra interno ed esterno. Come scrive Georg Simmel in Ponte e porta “…dalla porta si riversa la vita al di fuori della limitatezza di un essere-per-sè isolato verso l’illimitato in tutte le direzioni”. Questo mi sembra essere anche il senso delle bellissime porte di Lubitsch