Che ci faccio qui da solo a piazza Kennedy, un trapezio di cemento ai bordi dello sterminato Gallaratese, periferia nord ovest di Milano? Con il traffico infernale che mi scorre sopra la testa, sotto i piedi, davanti e di dietro. Questo è un vero “non luogo”, come direbbe Marc Augé, è lo spazio vuoto dei flussi.
Perchè allora chiamare piazza un posto del genere, senza case, senza gente, senza storia? Che cos’è una piazza? Leggo su una pagina web dell’enciclopedia Treccani che in tutte le epoche storiche la piazza è sempre stata un luogo di riunione dei cittadini, svolgendo tre funzioni di fondo: politica, commerciale e religiosa. Non è certo il caso della nostra piazza Kennedy.
Largo, non piazza
Con lo sviluppo moderno delle grandi città sono sorti nuovi tipi urbanistici di piazza, uno dei quali è la cosiddetta piazza di traffico. Appartengono a questa tipologia, prosegue la Treccani, “quei larghi disposti nei grandi nodi stradali, necessari allo smaltimento del traffico. Non si tratta dunque di piazze vere e proprie, piazze composte e pensate come ambienti chiusi: in questo senso dovrebbero essere esclusi dal novero delle piazze…”.
Piazza J.F. Kennedy avrebbe dovuto quindi chiamarsi più propriamente Largo J.F. Kennedy; ma chissà, forse Largo sarebbe sembrato troppo sminuente rispetto a un personaggio di rango storico come il presidente americano assassinato a Dallas il 22 novembre del 1963.
E che ironia il manifestino del Comune di Milano che invita api e farfalle a impollinare sotto il cavalcavia un improbabile prato fiorito.
Il sole inizia a nascondersi dietro lo sfondo dei palazzi lontani. Il rumore del traffico è sempre una botta Lo-Fi. Un bus senza passeggeri passa come uno spettro. L’unico segno apparente di vita è un povero giaciglio sotto il cavalcavia. Qualcuno abita qui – chissà chi.
Per l’ultima volta (non ce ne sarà di certo una seconda) guardo e filmo le piccole e piuttosto misteriose piramidi in plexiglas collocate sul prato centrale della piazza. Un intervento di arredo urbano, penso, per cercare di abbellire e umanizzare questo luogo disabitato, ma che in realtà contribuiscono a renderlo ancora più lunare.