l mondo è una mescolanza intima e vitale di oscurità e luce. Ombra e luce non si oppongono l’una all’altra, ma si legano indissolubilmente tra loro. La luce genera l’ombra che attira la luce. Le ombre ci parlano della luce, la luce delle ombre. In mezzo, tra luce e ombra, gli oggetti, le cose, i corpi, che partecipano di entrambe, immersi nell’ombra come nella luce.
Quando c’è un ombra c’è sempre un corpo, un oggetto, una materia. L’ombra dice la presenza di un’assenza, manifesta l’esistenza di una cosa o di un ente con cui intrattiene un rapporto di contiguità e analogia. Interrompendo il flusso della luce, è la proiezione di un corpo, di un oggetto, un sorta di doppio o di calco. L’ombra è quindi un’immagine, una rappresentazione, seppure opaca e bordata, dell’oggetto: la sua soglia, la sua linea d’ombra, la sua prospettiva.
Togliendo la luce, l’oggetto si presenta nella sua forma stilizzata e vero-somigliante di ombra portata, un po’ come nel rapporto che la fotografia intrattiene con il reale. E che cos’è, in fondo, un’immagine fotografica se non un’ombra, una referenza dell’oggetto ripreso in un istante passato? Un’ombra di ombre, quando il suo oggetto sono le ombre stesse delle cose e degli esseri viventi che abitano il mondo. Quell’archeologia ombrosa che secondo Jean-Christophe Bailly impronta l’origine e lo statuto della fotografia.
Non so quanto sia diffusa l’abitudine di osservare le tante ombre che, specie nelle belle giornate di sole, accompagnano la nostra vita quotidiana, a iniziare dalle ombre del nostro corpo, che non ci abbandonano mai. Tendiamo a posare e trattenere lo sguardo più sull’oggetto illuminato dalla luce che sulla sua ombra. Sul visibile più che sull’invisibile.
Alle zone d’ombra riserviamo un’attenzione distratta e fuggevole, come di cose banali, poco leggibili, oppure troppo oscure e per questo inquietanti. Siamo ben lontani dall’apprezzare le ombre che ci circondano, che abitano il mondo e che ci abitano. Incapaci di fare loro posto, di amarle e raccontarle, come insegna lo scrittore giapponese Junichiro Tanizaki con il suo bel Libro d’ombra. Ci consideriamo figli della luce, anche se veniamo dall’ombra, quell’ombra a cui prima o poi finiremo per tornare. Quell’ombra che spesso, invece di nascondere, rivela più di quanto riveli la luce.
Raccogliere ombre: la strada
Uno dei luoghi maggiormente popolati da ombre è la strada di una città. E qui che potremmo svolgere con tranquillità i nostri esercizi di raccoglitori e narratori di ombre, semplicemente camminando e osservando e scattando magari delle fotografie. Sulle superfici grigie delle strade, la città “stampa” le ombre dei propri innumerevoli manufatti e oggetti, che danno luogo a una vera e propria sinfonia visiva di sorprendente bellezza.
L’ombra gettata da un palo della luce, un semaforo, una moto o una bicicletta parcheggiate sul marciapiede appare più misteriosa e affascinante dell’immagine dell’oggetto fisico corrispondente illuminato dalla luce. Il doppio oscuro e immateriale dell’oggetto è un disegno, una forma, un’estetica. A volte un’ombra di strada può essere bella quanto il quadro astratto composto da un bravo artista. Come se attraverso la sua ombra la cosa sognasse e vivesse un’altra vita nello spazio adiacente che non può occupare. Le ombre animano lo spazio di cui hanno bisogno. Le ombre, con il loro apparire e sparire di tracce fotoniche, sono il vibrare delle cose nel mondo. Un’arte effimera che si dà ai nostri sguardi impazienti.
A seconda dell’inclinazione e dell’intensità della luce, le ombre ricalcano in modo più o meno fedele e proporzionato la forma degli oggetti di cui sono espressione. Si accorciano, si allungano, ruotano, denotando ogni volta in modo diverso la forma dell’oggetto, ora comprimendola ora dilatandola, addensandola o sfumandola, come facendo danzare l’oggetto nello spazio e nel tempo. Le ombre portate dipendono necessariamente dall’oggetto-corpo illuminato, ma rispetto a questo conducono un’esistenza radicalmente autonoma e differente. Un’ombra non può essere ridotta al suo oggetto, come del resto l’oggetto non può essere ridotto alla sua ombra. E semmai il loro stare insieme che rende possibile la percezione e la conoscenza della natura delle cose e del mondo, forgiandone la bellezza.