Altopiano di Asiago, 29 Ottobre 2018, il maltempo. Una tempesta d’inaudita violenza si abbatte sull’altopiano di Asiago. Trecentomila alberi vengono sradicati o spezzati dalla furia del vento. Boschi e foreste ridotti ad uno spaventoso groviglio e ammasso di tronchi abbattuti, sembrano i bastoncini impazziti di un gigantesco gioco del Shanghai, ma privi di colore.

Uno sterminio vegetale peggiore di quello che l’Altopiano  conobbe durante la Grande Guerra, dicono. Esattamente cent’anni dopo la fine di quel conflitto, quando a cadere e morire, oltre gli alberi e gli animali, erano gli esseri umani, dieci milioni. Adesso le persone scomparse con l’ultimo maltempo in ordine di tempo sono una ventina, ma gli alberi distrutti nell’Italia del Nord ammontano, sembra, a 14 milioni. Quattordici milioni di esseri viventi, come noi umani, molti di più della guerra. E cento sono anche gli anni necessari al bosco per tornare ad essere quello che era un attimo prima della catastrofe. Cento dal passato, cento dal futuro – se futuro sarà.

Anche questa volta – dice qualcuno, ripetendo la solita solfa – la devastazione è stata causata dalla natura, con il suo vento mostruoso che soffiava a 190 Km/ora, più che dall’uomo. Ma siamo sicuri che l’uomo non abbia colpe? Gli odierni eccessi del clima – o “meteo estremo”, come viene sinistramente chiamato – sono dovuti soltanto alla bizzarria “naturale” e imprevedibile di nuvole, venti, temperature, mari e sole? La natura, “calamità naturale”, o piuttosto la violenza che in vari modi l’uomo-centrico esercita e ha esercitato sulla natura?

“Ascoltare gli alberi, prima che le previsioni del tempo. Sentire il canto delle cose che ci circondano. Stiamo diventando sordi e ciechi. E gli animali sordi e ciechi fanno una brutta fine” (Franco Arminio, Il Corriere della Sera, 3 Novembre 2018). Abitare la natura, dunque, mescolarsi agli alberi, ai cieli, agli uccelli, agli altri. Vivere come un pesce nell’acqua, perchè la vita, il mondo, è un’immersione continua, dove “tutto è in tutto” (Emanuele Coccia, La vita delle piante).

Sleghe: un luogo, un video

Asiago, Agosto 2018, la vacanza. E’ il primo pomeriggio del 4 di Agosto, arriviamo in macchina ad Asiago: io, mia moglie, mia cognata, mia suocera di 94 anni. Destinazione una grande casa di via dei Boschetti, un tempo adibita all’allevamento di polli, nelle vicinanze dell’aeroporto. Tutto il paesaggio dell’Altopiano è lì a due passi: il bosco, il prato, le mucche, le legnaie fuori dalle case, il sentiero. In lontananza l’arco trionfale del Sacrario, sul bellissimo colle panoramico, punto cardinale del vedere e della storia del luogo.

Ed è subito e di nuovo Asiago, come due anni fa, l’ultima volta, e dieci o forse dodici, la prima, ospiti degli gnomi di Kaberlaba, quando scoprimmo l’Altopiano. Da allora Asiago è entrata a far parte stabilmente dei miei “luoghi dell’anima”. Un luogo che forse mi portavo dentro da sempre, sin dall’infanzia, perché noi siamo fatti dei luoghi che incontriamo nella vita o che ci aspettano da qualche parte del mondo, anche se magari non li incontreremo mai.

Non so se un luogo ha un’anima con la quale ci parla di sè, come sostiene Hillman, o se piuttosto parla attraverso di noi, i nostri pensieri e ricordi, le nostre relazioni, i nostri desideri, i nostri vissuti di esperienza.  Che un luogo parli con la sua voce o con la nostra, o con entrambe, è alla fine indifferente. In qualche modo Asiago entra in me e io in Asiago: camminare con il paesaggio nella mente e la mente nel paesaggio. Vivere in questa continua risonanza tra il fuori e il dentro, in questo perenne sconfinamento tra l’anima del paesaggio e il paesaggio dell’anima.

E ho camminato e sconfinato davvero in questi venti giorni di Sleghe (il nome cimbro di Asiago). Molti passi nelle contrade, che si “affacciano” su questo paesaggio di meravigliosa dolcezza, come un mare d’onde tra pianura e montagna, mosso dai suoi cieli profondi, carichi di luci e di ombre. Prati e boschi, legni e pietre, suoni e odori, farfalle e mucche, api e fiori, sentieri e memorie. Le case amiche di Mario Rigoni Stern ed Ermanno Olmi l’una accanto all’altra, al limitare del bosco. L’ Altopiano  è luogo di mille luoghi, di mille voci, comprese le voci dei morti. E’ un mondo, una vastità, un orizzonte di orizzonti.

Ho visto e filmato nei boschi molti alberi abbattuti, distesi per terra, come dei cadaveri. Diversi segati di recente e non certo dalla natura cattiva, che semmai interviene con altri mezzi. Perché così tanti alberi abbattuti? Perché erano vecchi e ammalati e pericolanti? Per farne legna da ardere o materiali da costruzione? Perché la terra delle radici è diventata fragile e mancano le cure e le presenze di un tempo? Non so, la risposta sta probabilmente nella storia -naturale, sociale e culturale – di questi boschi, in cui camminiamo senza saperne nulla. 

Alberi abbattuti dagli uomini nei pressi di Forte Interrotto (Camporovere di Roana)