La città dei guanti perduti potrebbe essere Copenaghen, che ha la forma di una mano. Basilea, con il “Monumento al guanto perduto”, opera dell’artista ucraino Illja Kabakov, conservato al Kunstmuseum. La città di Tampere, in Finlandia, con il “Parco dei guanti perduti”. Tokyo, dove Koji Ishili da una ventina d’anni fotografa i guanti smarriti che trova per strada, a migliaia, una vera e propria ossessione feticista. Ed è un pò strano che sia così, perché da tempo viviamo più nell’epoca delle mani scoperte che in quella delle mani guantate. Meno “fashion” e più utilitarismo.
Sono in tanti a fotografare i guanti perduti, basta andare sul web per rendersene conto. Lo fa anche l’attore Tom Hanks: “Un guanto smarrito che cerca il suo compagno, non è forse così che va il mondo?”, ha detto in un’intervista. Il cantante Nick Cave con il libro fotografico “Melancoly, the little book of lost gloves”. Lo faccio anch’io. Ad esempio un guanto di pelle nera abbandonato l’inverno scorso su uno scoglio in riva al mare. È quello che ricordo di più, forse perché non l’ho fotografato. E mi ricordo che siamo rimasti un po’ insieme, guardando il mare grigio in silenzio.
A sinistra : la pianta della città di Copenaghen a forma di mano – A destra: Man Ray, Le Gant Perdu (1967-1968)
Perché tutto questo interesse per i guanti perduti? Forse perché il guanto è il ricalco della mano, la sua ombra, che è la nostra carta d’identità, l’impronta del nostro essere, il nostro “volto”. La mano è anche forza, energia, relazione, l’organo del fare e del tatto con cui costruiamo e tocchiamo tutte le cose del mondo. Con la mano accarezziamo corpi, stringiamo altre mani, diamo “una mano d’aiuto” a chi è in difficoltà. Quel guanto abbandonato per terra, traccia di una mano perduta, ci comunica allora come un senso di vuoto, di smarrimento, di fragilità delle cose e della vita stessa. E’ il fantasma malinconico di un’assenza che ci spiazza e nello stesso tempo ci commuove, dicendoci qualcosa della vita di persone sconosciute.
Le gant perdu
La città dei guanti perduti può essere quindi una città qualsiasi, un posto qualunque, purché abitato da esseri umani: in ogni angolo del mondo c’è sempre qualcuno che perde i guanti. E altri che li ritrovano, fosse solo per dargli un’occhiata fuggevole, oppure raccoglierli, portarli a casa, conservarli benevolmente, esporli al parco. O trasformarli, a volte, in un’opera d’arte, come “Le gant perdu” di Man Ray, che nel thread di una donna americana diventa “la storia della mia vita”.
Un altro famoso guanto perduto è quello rappresentato, in un ciclo di dieci acquaforti, da Max Klinger nel 1881. In una pista di pattinaggio di Berlino una giovane e avvenente donna, volteggiando sui pattini, perde, forse volutamente, un guanto – lungo ed elegante, da Belle Époque. Un uomo s’inchina frettolosamente a raccoglierlo, mentre il cappello gli cade a terra. É l’inizio di una storia fantastica, di un sogno ad occhi aperti, dai chiari risvolti erotici. É il guanto feticcio del desiderio, simbolo dell’attrazione amorosa,
Potenza suggestiva dell’arte, ma anche del guanto perduto in quanto tale, della sua particolare propensione a evocare una storia, una memoria, un altrove, a liberare la fantasia di chi lo guarda. Di più struggente e pensierosa c’è forse soltanto la scarpa abbandonata. Irriverente e incomprensibile la mutanda, che non si capisce bene come possa essere finita ai piedi di un albero o su un sedile della metropolitana. Un pò come certi calzini. Allegro e disinvolto il cappellino. Di più osceno solo il preservativo, non perso ma buttato (almeno credo), che è il guanto dell’organo maschile, il guanto del piacere, in lattice come il guanto chirurgico. Cose perdute e gettate nel mondo, che forse per la prima volta nella loro più o meno lunga vita a servizio dell’uomo, si mostrano come nude cose, come cose in quanto cose. Ed è allora che iniziano a parlare.
Il guanto ci parla
I guanti smarriti sono lì, sul selciato. Sono due, insieme, un fatto poco frequente perché sono quasi sempre soli: o il destro maschile o, più raramente, il sinistro femminile. Si toccano, si danno la mano, fanno tenerezza. Sembrano essersi messi in posa, come due fidanzati: mi fermo per fotografarli.
Forse mi vedono, salutano, perché sono abituati alla gentilezza, al “tatto”. “Ma cosa vuol dire che le cose possono vedere?” si chiede il filosofo Felice Cimatti nel suo libro Cose, bello e difficile. “Significa – prosegue il filosofo – che le cose, come noi, fanno parte di un mondo che ci comprende, un mondo che non sa che farsene della distinzione tra persone e cose”. Infinite cose che sono tra noi, per sempre e da sempre, ma che vivono indipendentemente da noi. Siamo noi ad avere bisogno di loro e non loro di noi. Per questo sono delle presenze perturbanti, hanno un che di alieno e di recalcitrante, interrogandoci con il loro mistero: specie quando non servono più a nulla. Le cose davanti a noi hanno una strana potenza, sono delle cose “vibranti” (Jane Bennett, Materia vibrante). Ci osservano silenziose, ma dicono più di mille parole. Non sempre il sapiens – con la sua postura di pensiero centrico, eternamente al di là e al di sopra delle cose singole – è capace di ascoltarle. Di “risuonare” con loro. E dovremmo solo ringraziarle, perché senza le cose non potremmo neanche parlare, pensare, vestirci, vivere.
La città dei guanti perduti è come una grande mano, il suo doppio, la sua pelle, la sua ontologia. E’ un pò come se il punto in cui il guanto solitario giace si allargasse e diventasse, anche se solo per il breve tempo di una sosta, spazio vissuto. Questa città è Copenaghen.
Non so cosa ho percepito di così spaventosamente e meravigliosamente definitivo al pensiero che il guanto potesse lasciare per sempre quella mano
André breton