Mi chiamo Pierfranco Parisi e sono nato a Torino nel 1927, ero a Roma nel periodo della Liberazione.
La mia era una famiglia benestante, avevamo una bella casa ai Parioli vicino all’Ambasciata svizzera, con giardino e un’anatra, che a un certo punto fece anche un uovo e fu una bella soddisfazione perché facemmo una grande pasta all’uovo d’anatra che era buonissima.
Mia mamma era ebrea, ma non praticante e non legata all’ambiente ebraico. Forse è per questo che alla promulgazione delle leggi razziali del 1938 la mia famiglia non ha avuto nessun tipo di problema. Lei si era comunque adoperata per contribuire alla raccolta dei famosi 50 chili d’oro che i tedeschi avevano chiesto in cambio della salvezza degli ebrei di Roma. Io mi sono reso conto di avere una matrice ebraica più tardi, negli anni.
Mia madre si è battezzata per amore prima di sposarsi, perché mio padre era cattolico. Era nato al Sud, a San Severo, in provincia di Foggia, da una famiglia modesta, e si era laureato in Ingegneria. A Torino si occupava di aereonautica ed aveva lavorato presso l’Aeronautica, una filiale della Fiat per poi arrivare a Roma.
L’ultimo saluto fascista
Io frequentavo la 4° ginnasio e feci la 4° e la 5° assieme con l’aiuto di un bravissimo professore amico di famiglia. Durante i giorni della Liberazione ero impegnato a fare questa finta licenza liceale, preparato dal professor Alatri, perché è stata davvero una burletta. Sono entrato alla mattina e sono uscito alle 13.00 ed ero diplomato, senza compito scritto e niente. Sono entrato immaturo e sono uscito maturo.
Mentre io mi diplomavo sentivo i cannoni sui colli Albani. Quando ho fatto l’ultima prova di esame, quella di ginnastica, alla fine degli esercizi ho girato i tacchi per uscire, ma il professore mi ha richiamato dicendomi di fare il saluto fascista. E io, purtroppo, l’ho fatto, questo ultimo saluto fascista, spinto forse dalla contentezza di aver conseguito la licenza.
Mi sono diplomato il 3 e il 4 giugno del ’44 sono arrivati gli alleati a Roma. Mi ricordo che stavo andando a casa verso i Parioli al nord di Roma e vedo passare non l’esercito ma un gruppo di tedeschi in viale Parioli, che stavano scappando prima dell’arrivo degli Alleati. Sentivo ancora il tuono dei cannoni sui colli Albani e questo per me è stato un momento emozionante.
Negli ultimi giorni della guerra, a casa nostra si era rifugiato un giovane, che si chiamava Vittorio Emanuele Orlando ed era nipote del più famoso Orlando. Era un alpino ed era scappato dall’Esercito, non ricordo bene per quale ragione. Lui aveva perso la penna d’aquila e mi ricordo benissimo che insieme andammo al giardino zoologico di Roma, a villa Borghese, per cercare la penna intorno alle gabbie delle aquile e rimetterla sul cappello. Forse la trovammo pure. Erano appena arrivati gli Alleati e lì si erano accampati alla meglio migliaia di soldati americani.