Licia Rognini nella sua casa di Milano

Mi chiamo Licia Rognini, sono nata nel 1928 a Senigallia, una cittadina sul mare delle Marche, ma sono arrivata a Milano a un anno circa, quando mia mamma Irma, che era sarta, raggiunse mio padre Giovanni. Lui si era trasferito in cerca di lavoro, perché, pur essendo falegname, al paese non trovava un’occupazione, non essendo fascista. A Milano venne assunto come operaio semplice e senza possibilità di carriera perché non aveva la tessera del fascio. In questa città sono nati i miei fratelli, Italo nel 1993 e Adolfo nel 1936.

Abbiamo vissuto prima a Precotto, poi in una casa di ringhiera con il bagno in comune sul ballatoio, in viale Monza al 114. Sono cresciuta lì, giocando per strada con i bambini del caseggiato, allora era normale giocare per strada, ora i bambini non possono più farlo.

Quando sono state promulgate le leggi contro gli ebrei, noi bambine e bambini fummo chiamati nella sede del fascio del nostro rione, per chiederci di che religione eravamo. Ricordo due fascisti: uno faceva le domande, l’altro sembrava vergognarsi di quello che stava facendo.

Allo scoppio della guerra io lavoravo già. Ho cominciato a 13 anni dopo aver completato il corso per stenodattilografia. Ero impiegata in una ditta che si occupava di compravendita di immobili. Accompagnavo i clienti sia in Tribunale che a sbrigare tutte le pratiche necessarie. Prendevo il tram tutte le mattine per andare al lavoro e alla fermata c’era un ragazzino che mi aspettava. Non ricordo il suo nome, mi portava due “michette”, regalo prezioso perché durante la guerra il pane era razionato. Poi se ne andava, non ricordo se ci siamo mai parlati.

Il primo bombardamento di Milano fu nell’ottobre del 1942. Ero al lavoro e sono riuscita a tornare a casa facendomi a piedi da via Larga in viale Monza tra edifici incendiati, urla e macerie. Ho vissuto quel momento con l’incoscienza dei giovani, senza pensare al pericolo che stavo correndo. Mia madre era terrorizzata, preoccupata per me e i miei fratelli allora bambini. Ha deciso che non potevamo più rimanere a Milano. Si è messa in contatto con sua sorella e suo fratello che vivevano a Roma, che era stata dichiarata “città aperta” e quindi non bombardabile. Ci hanno accolti a casa loro.

Giovanni Rognini, padre di Licia, in una foto degli anni ’20 con i suoi amici (il secondo da sinistra della prima fila in piedi) – Fonte Licia Rognini

A Roma

Fu così che mi trasferii a Roma a casa della zia Zelia con Italo, mentre Adolfo andò a casa dello zio. Mia zia aveva una portineria a Ponte Milvio sulla Cassia e abitavamo lì. Suo marito lavorava per una ditta, la Tudini e Talenti, e non ebbe difficoltà a farmi assumere come impiegata. Eravamo in pieno regime fascista, con Mussolini al potere e il Re.

Poi arrivò il 25 Luglio del 1943, io mi unii agli operai della ditta che si riversarono nelle strade abbattendo le statue di Mussolini. Eravamo tutti usciti in maniera spontanea, io seguendo gli altri, ma non tutti l’abbiamo fatto, anzi l’unica tra le impiegate. Venni licenziata perché ero uscita senza permesso. Ufficialmente il motivo fu “per esuberanza di personale”. A mio zio dissero che non potevo rimanere lì perché avevo sobillato il personale. Quando si è giovani non si ha paura.

L’8 settembre me lo ricordo bene. I camion carichi di soldati tedeschi sulla via Cassia, io che tiro fuori la lingua per sbeffeggiarli, uno di loro che mi punta il fucile, ma, forse perché il camion andava troppo veloce, non spara. Col senno di poi ti rendi conto del pericolo corso, dopo però.

Durante l’occupazione ho visto un nostro soldato preso dai nazisti, ero a casa, sono corsa giù da mia zia dicendo “Lo stanno prendendo, aiutiamolo”. Lei mi ha detto di stare lì e di non muovermi. E questo mi è rimasto molto impresso.

Licia Rognini all’età di 15 anni

Non sapevamo quello che stavano soffrendo gli ebrei, l’ho saputo dopo la Liberazione di Roma, quando qualcuno di loro è tornato. Uno passava da tutte le case in cui era stato a vendere biancheria cercando chi lo aveva denunciato. A Roma c’era la Resistenza, ma io non lo sapevo. L’ho saputo dopo che era vicino anche a casa nostra e ne facevano parte persone che io conoscevo benissimo. L’ho saputo quando sono arrivati gli Alleati nel giugno del ’44.

Durante l’occupazione tedesca c’era penuria di cibo, si cono state manifestazioni, assalti ai forni. Il film Roma città aperta rispecchia molto bene come si viveva allora. Mia zia decise di andare in Umbria a procurarsi la farina per fare il pane e mi chiese di accompagnarla. Mi è rimasto impresso quando eravamo lì e abbiamo visto una fiumana di gente che correva, scappando da un paese vicino. Continui a domandarti cosa fosse successo e il perché senza trovare una risposta. Comunque ci è andata molto bene perché ne succedevano di tutti i colori.

Un fotogramma del film Roma città aperta citato da Licia Rognini

La liberazione

Un nostro amico compagno di giovinezza, che era scampato a una brutta malattia, aveva trovato la forza quel giorno di uscire di casa per le strade con gli altri per vedere i tedeschi scappare. Stava correndo giù da una montagnola quando venne centrato in pieno da una bomba tedesca.

Erano arrivati gli Alleati. Noi eravamo euforici perché erano stati cacciati i nazisti e con essi erano spariti i fascisti, ma non definitivamente come avemmo modo di accorgerci fin troppo presto.

La vita del quartiere cambiò, c’erano molti più ragazzi per le strade perché non avevano più paura dei rastrellamenti tedeschi. Si poteva di nuovo girare per le strade ed esprimere la propria opinione. A Ponte Milvio venne aperta una sezione del Partito Comunista: mi presentai per un lavoro e mi assunsero come dattilografa. Cominciò un’attività nuova per me fatta di riunioni, discussioni, di conoscenza. Non sapevo molto sull’attività del partito, per me era un mondo tutto da scoprire. Avevamo un responsabile di sezione che correggeva quello che scrivevamo, senza modificarne il contenuto, ma aiutandoci a correggere la sintassi.

Con il capo sezione andavo a fare i comizi volanti, ancora con scarsa preparazione, ma stavo imparando. Partivamo con un tavolino pieghevole, si decideva dove fermarsi e iniziavamo a parlare. Chissà dove trovavo il coraggio, ma allora, anche se sapevo poco di politica, mi piaceva restituire quello che avevo imparato. Trovavo però un certo imbarazzo da parte dei dirigenti alle mie domande, ad esempio quando chiesi perché la Russia era un modello se c’era la dittatura.

Con altri ragazzi fummo portati alle Fosse Ardeatine, fu tremendo. Sentii quello che era successo, fu come se la terra piangesse. Mi è capitato di provare la stessa indicibile sensazione anni dopo, quando andai a visitare i campi di sterminio in Germania.

Liberazione di Roma – Fonte Il Corriere della Sera

Ritorno a Milano

Il 25 aprile del 1945 anche Milano venne liberata. Mia mamma affrontò un difficile viaggio con mezzi precari per venirci a prendere. Ripartimmo per Milano, sempre con un camion, quasi improvvisamente e potei salutare e avvisare poche persone. Fu un viaggio molto disagiato, dormivamo per terra durante le soste, rischiammo anche di finire in un burrone perché l’autista si era addormentato mentre guidava. Ma finalmente Milano, felice di aver ritrovato sani e salvi i miei genitori, le mie amiche del cuore.

Un giorno vidi in casa una fotografia che ritraeva il volto di un uomo dall’aspetto gentile. Chiesi a mio padre chi fosse. Lui mi raccontò che alla fabbrica Pirelli, dove mio padre lavorava, gli operai avevano fatto dei sabotaggi. I tedeschi li avevano presi e messi tutti in fila, tirandone poi fuori alcuni, che portarono via. Uno di loro era l’uomo della fotografia, Pietro Bruzzi, un importante partigiano, anarchico, prima torturato e poi fucilato dai tedeschi nel febbraio del ’45.

Pietro Bruzzi (1888-1945), operaio meccanico, anarchico. Ricoprì un ruolo di spicco nel sindacalismo rivoluzionario degli anni ’20 e ’30 e nella Resistenza italiana. Morì fucilato dai nazifascisti il 19.02.1945 – Fonte fotografica Licia Rognini

A Milano ho trovato lavoro in una ditta e ho continuato la mia attività politica in una sezione del Partito Comunista. Ma il clima era molto diverso rispetto a Roma. Quando, qualche anno dopo, espressi la mia opinione che non mi sembrava dignitoso andare per strada a vendere le mimose, mi diedero della reazionaria. Mi offesi e strappai la tessera del partito. Avevo vent’anni. Non ho mai più preso tessere di partito.

Mio padre era anarchico. Giovanissimo aveva partecipato alla “settimana rossa” di Ancona, che si propagò subito a Senigallia. Da anarchico non aveva mai votato, decise però di andare a votare al referendum tra monarchia e repubblica. Io ero ancora minorenne, la maggiore età e quindi il diritto al voto si aveva a 21 anni. Alle elezioni politiche del 1948, le prime dell’Italia libera, feci la campagna elettorale per il Partito Comunista, ma la vittoria della Democrazia Cristina fu una delusione cocente.