Anche per appartenenza generazionale dovrei conoscere il cinema di Alberto Grifi meglio di quanto lo conosca. In realtà ne so poco, ma quel poco mi piace molto.  Un cinema del resto infinito e ancora oggi sconosciuto nella sua totalità. Leggo che delle 30 ore di girato al festival del proletariato giovanile di Parco Lambro (giugno 1976) sono visibili, a 40 anni di distanza e dopo restauro, soltanto 565 minuti. Eppure si tratta di uno dei più significativi autori – se non del più importante – del cinema underground italiano che fu. 

Ho visto o intra-visto frammenti sparsi di quelle 9 ore di Parco Lambro girare in loop nei 7 monitor installati al primo piano della Casa del Pane di Porta Venezia a Milano in occasione della bella retrospettiva dedicata da Filmmaker ad Alberto Grifi. Ho visto o intra-visto – in certi casi ri-visto o ri-intra-visto – altri frammenti di altri lavori di Grifi nelle salette attigue. Ero a Filmmaker con un mio amico, cui ho detto “Andiamo prima a dare un po’ un’occhiata alla rassegna di Grifi”. Un’oretta prima dell’amato Alain Cavalier. Occhiate, quindi. Frammenti di un cinema di frammenti, magmatico, aperto, incompiuto. Un po’ come le nuvole che vanno e vengono in cielo senza fermarsi, per poi scomparire.

Le sequenze scorrono, sporche, imperfette, ma vitali e appassionate. Urlate. Ne catturo dei brani con il mio smartphone. Penso vagamente che potrebbero servirmi, questi prelievi visivi. L’auto-produzione diffusa di immagini è ormai parte integrante delle nostre vite quotidiane. Non serve a niente, ma non si sa mai.

MILANO GRIFI

Mi chiedo al buio, tra i lampi di luce del video proiettore, se in Italia esista oggi un cineasta come Alberto Grifi. No, non esiste. Uno che filma ore e ore di seguito aspettando che le cose succedano da sole, si diano allo sguardo senza forzature. Senza scalette e sceneggiature. Uno sguardo non posto davanti al mondo, giudicante, ma che sta in mezzo al mondo, ai corpi, ai conflitti. Un sorta di cinema espanso, fisico, che ti accoglie e ti porta dentro la vita degli altri mentre lo guardi. No, nessuno – attualmente.  Anche per il cinema il tempo è diventato intempestivo, trascorre in una durata vuota e travolgente (Byung-Chul Han, Il profumo del tempo). Come dice Bauman, siamo un po’ tutti come dei pellegrini che corrono in un deserto.

Torno alla Casa del Pane il pomeriggio dopo, questa volta da solo. Ancora occhiate, voci, baluginii, ripresine smart. Alle cinque le proiezioni di Prospettiva Grifi si interrompono per riprendere alle sette. Ma alle sette c’è Cavalier, imperdibile. Faccio a piedi tutto Corso Buenos Aires e poi torno indietro. Riprendo immagini di strada con lo smartphone. Penso che sarebbe bello accostare/contrapporre queste immagini della Milano di oggi a quelle di Grifi ai tempi di Grifi. E’ così che nasce l’idea del video Milano Grifi.

Il cinema di Alberto Grifi è un cinema di corpi e di parole, dove luoghi o paesaggi occupano un ruolo secondario se non del tutto marginale. Grifi non è Resnais, Herzog o Antonioni e nemmeno Godard. I paesaggi di Grifi sono i corpi, le facce, i gesti, le bocche che parlano ininterrottamente. Un paesaggio di carne, di sangue, di voci, come a voler fare esplodere il desiderio, la libertà, la vita. Capace di imprimersi nella memoria e nell’immaginario dello spettatore come la Monument Valley di John Ford, facendosi paesaggio interiore duraturo.