Il monte Ortobene è la montagna sacra di Nuoro, il luogo dell’anima dei nuoresi. Non è un monte qualunque, ma su Monte, come viene chiamato, il Monte e basta. “L’Ortobene – scriveva Grazia Deledda – è uno solo in tutto mondo. E’ l’anima nostra, il nostro carattere, tutto ciò che vi è di grande e di piccolo, di dolce e puro e aspro e doloroso in noi”. Un’unicità che è il senso profondo del luogo, risorsa identitaria di una città che – con i suoi sette colli, come Roma – sorge alle pendici del Monte. Il suo toponimo Ortovene significa “monte sorgivo”,  un monte ricco di sorgenti d’acqua, fonti della vita.

Nuoro è il basso dell’Ortobene, l’Ortobene è l’alto di Nuoro. Il giù e il su. “E giù Nuoro, soave e maledetta”, e su “il vasto serto dei monti, arsi di sole e di vendetta” (Sebastiano Satta, Orthobene). Un andirivieni tra il chiuso e l’aperto, il villaggio e l’oltre, che da sempre nutre il rapporto di Nuoro con il suo Monte e forse con il mondo intero. Sin da bambini, con la colonia estiva nel bosco magico di Solotti, da molto tempo caduta in disuso, ma oggi in fase di rinascita. Monte dell’infanzia, dei giochi, delle scoperte, dei ricordi, dei riposi, dei cibi condivisi, buono per tutte le età della vita. Un appartenersi reciproco: Monte della città, città del Monte.

A Nuoro non si dice “andare”, ma “salire” al Monte. Una “elevazione” che non è soltanto uno spostamento fisico, ma è soprattutto un portare lo sguardo, il desiderio, il pensiero, l’immaginazione in un punto alto e altro (Antonio Prete, Il cielo nascosto). Ai piedi della statua del Redentore o affacciati sulla vallata del fiume Cedrino che va verso il mare, la vista si fa mondo, sconfinamento, tace nel silenzio: “Così tra questa immensità s’annega il pensier mio” (Giacomo Leopardi, L’infinito). Il paesaggio vasto che circonda il Monte diventa un raccogliersi in sé stessi, paesaggio interiore, risonanza, luogo dell’anima e della mente.

L’ Ortobene può essere una scuola di vita, un’impronta indelebile. E’ il caso ad esempio di Domenico Ruiu, affermato fotografo naturalista e pubblicista, che senza l’esperienza vissuta del Monte non sarebbe la persona che è. Le sue parole si possono ascoltare nel breve video fotografico che segue, realizzato a ridosso di una mia ricerca nuorese (A viva voce. Storie da Nuoro) fondata sulla raccolta di testimonianze orali. Esse ci dicono quanto sia importante vivere un luogo come luogo – come affezione, relazione e memoria.

Redentore

Nuoro-Ortobene, 29.08.2018. Quest’anno la messa solenne per il Redentore cade di mercoledì, giorno lavorativo, ma l’Ortobene è egualmente pieno di gente. I pellegrini si sono mossi all’alba dalla piazza antistante la Cattedrale di Nuoro per raggiungere il Monte a piedi. Succede dal 1901, quando, per desiderio del Papa Leone XIII, sulla cima del Monte Ortobene venne collocata la statua bronzea del Redentore. Aveva attraversato il mar Tirreno chiusa dentro sei grande casse imbarcate sul piroscafo Tirso approdato nel porto di Cagliari. Il viaggio era poi proseguito in ferrovia.

Nuoro, Monte Ortobene – Inaugurazione della statua del Redentore (1901)

Il Cristo nuorese è alto 4 metri, contro i 38 di quello brasiliano di Rio de Janeiro, città di recente gemellatasi con Nuoro. A guardarlo dal basso fa comunque impressione, sembra volersi sollevare con le sue 2 tonnellate dal piedistallo per spiccare il volo nel cielo sopra Nuoro. Artisticamente non può dirsi bella, la statua, ma è amata, onorata e riverita, è un simbolo della città. Ha il grosso alluce di un piede scolorito e lucidato dalle carezze scaramantiche, ormai secolari, di fedeli e turisti.

Io “salgo” alle dieci del mattino con l’autobus, che qui si chiama postalino, a sbaffo, perchè per la Messa del Redentore non si paga il biglietto. Siamo tutti pellegrini, almeno per un giorno e magari solo per caso, come me. La corsa sino al Monte è un concerto di voci dialettali eccitate, soprattutto femminili. E’ una bella giornata di sole, che già di per sé fa bene allo spirito.

Al centro del parco del Monte si celebra la messa solenne accompagnata dai cori. Io, con lo smartphone bollente in funzione video, sono più interessato a quello che succede ai margini del rito, appena fuori dal recinto sacro, ai bordi dell’emozionante processione che chiude la celebrazione religiosa percorrendo lentamente l’anello del parco. Questo sacro che si mescola al profano, alle tavolate imbandite di cibi e bevande, agli incontri fatti di parole e racconti, ai cavalli, alle rocce, alle querce, al canto improvvisato. E’ soprattutto qui che trovo la bellezza della festa come messa in scena di una comunità.

Ma nessun video, per quanto bello, potrà avere l’intensità poetica e l’afflato esistenziale con cui Grazia Deledda descrive l’evento festivo in un passaggio di uno dei suoi romanzi più belli, Canne al vento. “Era d’agosto, la luna grande rossa sorgeva dal mare e illuminava i boschi. Di lassù, sì, Efix vedeva il suo Monte lontano; e passò la notte a pregare, sotto la croce nera che pareva unisse il cielo azzurro alla terra grigia. All’alba s’udì un salmodiare lontano; una processione salì dalla valle e in un attimo le rocce si coprirono di bianco e di rosso, i cespugli fiorirono di volti di fanciulli ridenti, e sotto gli elci i vecchi pastori s’inginocchiarono come Druidi convertiti”. Quando si dice l’anima di un luogo, di una terra.