Valmalenco: la pietra e l’acqua. La pietra è il villaggio di Lanzada in una settimana d’agosto. L’acqua è il torrente in basso, che con il suo rumore sordo e continuo scorre ai piedi del paese. E’ il torrente Lanterna, mi dicono, che nasce dal massiccio del Brenta.
Due mondi vicini, acqua e pietra, che contrassegnano il paesaggio di questa valle laterale della Valtellina. Una valle che, almeno nel punto in cui mi trovo, non mi piace molto, troppo stretta e ombrosa per il mio occhio e il mio respiro di settantenne. Secondo alcuni, l’origine del termine Valmalenco sta a significare “valle attorniata da spaventevoli montagne”.
Io amo la montagna aperta e solare, ondeggiante, come quella bellissima e dolcissima dell’Altopiano di Asiago. A Lanzada, l’orizzonte e il luminoso sono lassù, verso le cime delle Alpi Retiche. Ci siamo andati ieri, salendo con la teleferica al lago Palù. Duemila metri, non sono mai stato così in vetta in vita mia, così esposto all’alta pressione, alla vertigine.
Trascorrono le ore e i giorni del nostro breve soggiorno estivo a Lanzada, piove, vorrei tornare a Milano. Ma poi, lentamente, mi affeziono al mondo di pietra che mi circonda. Passeggio solitario tra i vicoli stretti e bui di antichi abitati, da Lanzada a Contrada Vassalini, da Ganda a Vetto. Ogni tanto mi fermo, scatto foto, giro video con lo smartphone.
Contrade di pietra
Case addossate le une alle altre, sottopassi, selciati, muri e muraglie, pertugi, scalette, finestrelle, porticine scure, ballatoi in legno sconnessi, massi rocciosi, ragnatele. Un abitare fitto e compatto, un reticolo di trincee, di dislivelli, di vuoti e di pieni, una sorta di casba grigia. Come se l’intero paese fosse un’unica grande casa o una fortezza in cui difendersi dal nemico.
La geologia, il mondo resistente e ostile della pietra, della roccia, diventa casa, rifugio accogliente, attraverso la volontà, i pensieri, le mani, la fatica di uomini ardimentosi. Facendo case, muri, ponti e mulini, scavando miniere, questi uomini facevano e conoscevano se stessi. Il mestiere della dura pietra era il mestiere della dura vita.
Nel borgo-casba si viveva tutti insieme, corpo a corpo, vista a vista, voce a voce. Di quello spazio comunitario, svuotato dai tanti abbandoni succedutisi negli anni, rimangono oggi le pietre lasciate spesso a se stesse, a volte in rovina. Il loro silenzio è interrotto ogni tanto dai rintocchi delle campane della chiesa, dall’abbaiare dei cani, dal sommesso vociare di chi ha avuto il coraggio di restare o di tornare.
Paesaggi d’acqua
In Valmalenco c’è tanta acqua, così tanta da rendersi pericolosa, quando scappa via e distrugge. Durante la tragica alluvione della Valtellina del Luglio 1987 morirono 53 persone. L’acqua è vita, ma è anche morte. I rivoli bianchi che rigano le montagne precipitando a valle destano un senso di inquietudine, segnalano l’esistenza di un rischio costante. Qui l’acqua incombe come i monti, come un destino. Qui davvero “tutto scorre, tutto è acqua” (Anassagora).
Non è quasi mai, con l’eccezione dei laghi di alta montagna, l’acqua placida o appena mossa che riflette le immagini del mondo: acqua-specchio, specchio d’acqua. L’acqua sognante di Narciso. E’ sì “l’occhio della terra” (Bachelard), ma un occhio fuggitivo, riottoso, fatto più di bagliori e trasparenze che di immagini riflesse riconoscibili. E’ tipicamente l’acqua di torrenti, cascate e cascatelle, che cade impetuosa, ribolle e spumeggia, scava la terra e arrotonda le pietre. Scorre in superficie, su di un letto di sassi, priva di quella profondità da cui sorgono le immagini.
Quest’acqua vorticosa ha una natura liquida ancora più ostile di quella solida e immobile della pietra. Ma è proprio la pietra a irregimentarla e a darle forma, rendendola risorsa utile, attraverso canali, condotte, vasche, fontane, pozzi, dighe, invasi idroelettrici. Paesaggi e luoghi incrociano continuamente acque e pietre, che costituiscono i sedimenti profondi e distintivi della storia e dell’identità della Valmalenco come dell’intera Valtellina.