Nel 1974 esce in Francia il libro di Georges Perec Espèces d’espaces, edito in Italia 15 anni dopo da Bollati Boringhieri con il titolo Specie di spazi. “Specie di spazi” sono gli spazi ordinari della vita di tutti i giorni, talmente familiari e dati per scontati da non essere neanche più percepiti. “Specie” deriva dal latino species “forma esteriore”, derivato a sua volta da specere, che significa “guardare”.  Quindi spazi verso i quali Perec invita a volgere lo sguardo, sforzandosi di “scrivere cose prive di interesse, quelle più ovvie, più comuni, più scialbe”.

Nell’Ottobre dello stesso 1974, Perec conduce il suo Tentativo di esaurimento di un luogo parigino (Voland, 2011). Il luogo parigino è Place Saint-Sulpice, che Perec, stando seduto ai tavolini dei caffè della piazza, osserva per tre giorni di seguito, annotando accuratamente sul quaderno tutto quello che vede. Proprio tutto, un po’ alla maniera di un etnologo che si aggira nel villaggio di una tribù primitiva: varie tipologie di passanti e di mezzi di trasporto, gesti, oggetti, abbigliamenti, piccioni, cani, edifici, vegetazione, fino ai cambiamenti della luce e del cielo, alle nuvole. Come un sismografo, l’occhio di Perec coglie e registra tutto, “ tutto quello che generalmente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza”. Fino all’utopico esaurimento del luogo.

Spazi sorvegliati

Georges Perec muore nel 1982, in un’epoca ancora dominata dall’immagine analogica. Chissà, mi chiedo, se oggi continuerebbe a osservare e descrivere la vita delle città da dietro le vetrine di un caffè oppure stando seduto davanti allo schermo di un computer con le infinite “specie di spazi” del mondo a portata di clic. Forse sì, il computer e lo smartphone, lo sterminato archivio audiovisivo di Internet, perchè no? Ma di certo Perec non smetterebbe di aggirarsi tra le strade e gli spazi reali con il suo sguardo unico, il suo fiuto di flâneur, che nessuna tecnologia può sostituire.

Le immagini registrate nelle città dalle telecamere di sorveglianza hanno qualcosa che ricorda da vicino gli spazi oggetto delle minuziose descrizioni di Perec. Un numero rilevante di esse rappresenta gli spazi accessori della casa: la veranda, il garage, il cortile, il giardino, il cancello, il vialetto, la strada di fronte. Spazi insignificanti e per lo più vuoti, silenziosi o animati da rare e fugaci presenze umane. Spazi residuali e astratti, specie di non luoghi, i cui veri protagonisti sono le automobili, posteggiate o in transito, icone mute della città liquida. Immagini anonime di luoghi anonimi, prive di autori e spettatori.

A cosa servono questi apparati “panottici” diffusi, che pretendono di rendere visibili e controllabili tutti gli spazi della vita, rispondendo alla crescente domanda di sicurezza dei cittadini? In concreto, nella maggioranza dei casi, sembrano servire a poco o a niente. A volte il loro sguardo appare del tutto incomprensibile, assurdo. Perché inquadrare per tutto il giorno un tombino stradale, un pezzetto d’asfalto grigio di due o tre metri quadrati? La cuccia del cane. La voliera degli uccellini. L’acquario. Il nido del rapace da cui si domina la città. Occhi che proteggono, che scoraggiano la violazione degli spazi da parte di ladri e malfattori o piuttosto un modo per corrispondere alla dimensione sempre più privatistica e individualistica dei luoghi della vita sociale?

Espèces d’espaces: il video

Espèces d’espaces è anche il titolo della relativa composizione di musica “acusmatica” di Bernand Parmegiani (1927-2013), ispirata, come la mia operina video, al geniale Georges Perec. I suoi 5 minuti iniziali accompagnano la visione delle immagini del video “riprese” dalle webcam di sorveglianza e scaricate da Internet tramite screenshot. Tutto molto semplice e comodo, da casa con il computer, senza scattare una sola fotografia, ma avendone a disposizione migliaia. Fotografie sporche, sfuocate, a bassa definizione, coerenti con l’indeterminatezza e la banalità degli spazi – in gran parte relativi a città e luoghi degli Stati Uniti d’America – che rappresentano.

In queste specie di spazi non succede quasi nulla, ma sono gli spazi in cui viviamo e lasciamo le nostre tracce. Tracce che riempiono oggi l’infinito spazio del Web. Citando ancora Perec: “Vivere, è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male”. Perchè allora non ritornare su quelle tracce, a riguardare quegli spazi non visti, che punteggiano le nostre eterogenee traiettorie quotidiane di passanti, automobilisti, abitanti di case e cortili? L’immenso e caotico archivio di immagini altrettanto non viste nel quale oggi siamo costantemente immersi può forse aiutarci a riconoscere meglio gli spazi e i luoghi reali in cui viviamo, a farli maggiormente oggetto delle nostre attenzioni e cure? A rendere straordinario l’ordinario? Seguendo magari l’invito di Perec: “Décrivez votre rue. Décrivez-en une autre. Comparez”.

Arte involontaria

Le telecamere di sorveglianza sono soggette non di rado a disturbi e guasti elettronici. Al posto dell’immagine più o meno pulita e riconoscibile dello spazio sorvegliato compaiono allora macchie e stringhe di colore, righe  e riquadri oscillanti di pixel, pulsazioni luminose. Ne derivano composizioni formali astratte a volte intriganti, esteticamente apprezzabili, come se scaturissero da una sorta di arte anonima involontaria. Si tratta di immagini singolari uniche, effimere, che difficilmente possono essere ripetute nell’identico modo dallo stesso dispositivo.

Anche gli agenti atmosferici (pioggia, neve, polvere) e gli insetti che strisciano o “ballano” sulla lente dell’obiettivo della webcam possono generare effetti visuali sorprendenti e stranianti. A differenza dei supporti audiovisivi che teniamo in mano quando scattiamo una fotografia o giriamo un video, le telecamere di sorveglianza degli spazi pubblici o semi-pubblici sono totalmente e perennemente immerse nell’ambiente in cui sono collocate. Non possono scappare, ripararsi. Sono come delle sentinelle, che a volte ci fanno vedere il mondo della vita quotidiana come non l’abbiamo mai visto.