Lollove è una frazione del comune di Nuoro, che dista una quindicina di chilometri dal capoluogo. Sorge solitaria tra i boschi di querce della montagna nuorese e guarda appollaiata su un’altura verso il vallone di Marreri.

Lollove è l’immaginario paese di Aar in cui Grazia Deledda ha ambientato il romanzo La madre, fatto di “povere casette arrampicate come due file di pecore su per la china erbosa”. All’epoca in cui fu scritto il romanzo (1919), Aar-Lollove contava 300 abitanti, saliti a oltre 400 negli anni ’50, ma poi quasi totalmente “spariti” a causa di un processo intenso e irreversibile di spopolamento, che ne ha svuotato case e terre.

E’ lo spaesamento che nel giro di poche generazioni ha stravolto la geografia e la vita di tante altre zone interne della Sardegna, così come dell’intera Italia, dalle Alpi agli Appennini. Tutto un mondo caduto a pezzi, e che continua a rovinare, come scosso da un lungo terremoto silenzioso e invisibile agli occhi della maggioranza degli italiani, al Nord come al Sud. Un parte vasta dell’Italia, terra di paesi, divenuta estremamente fragile e spesso a rischio di estinzione.

A Lollove, antico villaggio – o “borgo” come da qualche tempo si preferisce dire – di origine medievale, oggi risiedono stabilmente 11 o forse 12 persone. Non è quindi un paese “fantasma”, anche se presenta tutti i segni dell’abbandono definitivo. Non solo case vuote, molte delle quali ridotte allo stato di ruderi, ma anche assenza totale dei servizi essenziali: scuola, farmacia, presidio sanitario,  ufficio postale, caserma dei carabinieri.

Annoverato di recente tra i Borghi più belli d’Italia, Lollove è ancora senza rete Internet, senza segnale, una condizione secondo alcuni invidiabile. Leggo in un sito di promozione turistica che a Lollove “si può vivere una vacanza all’insegna del digital detox, offline e felici, esattamente come sono i suoi abitanti”.  Andare a Lollove per disintossicarsi dallo smartphone passi pure, ma proiettare questo stato di presunta beatitudine sui pochi e fortunati abitanti del cosiddetto borgo mi sembra davvero una sciocchezza etno-urbanocentrica.

Lollove- Fonte https://www.sardegnaabbandonata.it

Lollove, sposi tra le case in rovina – Fonte: https://www.francescafloris.it

Restare

Nonostante l’abbandono, Lollove c’è, vive ancora, anche se in forme molto diverse da quelle del passato. Gli undici o dodici abitanti rimasti sono i soggetti attivi e coraggiosi di quella che l’antropologo Vito Teti ha chiamato la “restanza”.  Il termine designa non un atteggiamento passivo e rinunciatario, ma la scelta consapevole di chi resta o torna nei paesi abbandonati per opporsi tenacemente al loro svuotamento. Restare significa creare le condizioni per un “ritorno ai luoghi”, rigenerare comunità, nuovi modi di abitare e di fare paese. Un paese mondo, piuttosto che “borgo”, che indica uno spazio ridotto, un ritaglio – una fortezza secondo l’etimo greco.

Lollove ha intrapreso negli ultimi anni un percorso di rinascita, che ha coinvolto probabilmente una cerchia più ampia di quella dei soli residenti. E in effetti la restanza attiva non implica necessariamente la residenza stabile nel luogo, che può essere, per così dire, “abitato a distanza”.

I restanti dell’associazione Uniamoci Lollove hanno fatto miracoli, creando occasioni di turismo lento, inventando nuovi spazi e modi di aggregazione e conoscenza, rivitalizzando gli antichi saperi locali. Nel corso dell’anno si svolgono eventi culturali e festivi, che animano la vita del borgo, richiamando curiosi e turisti, in maggioranza stranieri.

La Lollove resiliente: la fattoria Lollovers – Fonte https://lollovers.it/

Da borgo a paese

Eppure, in questa rinascita, in sé certamente meritoria e rivolta al futuro, qualcosa continua a mancare. E questo qualcosa che manca si chiama paese. Non basta attrarre turisti, essere la romantica location di eventi sporadici, ristrutturare qualche casa in modo più o meno conservativo.

Lollove è il paese che è stato e che può ritornare ad essere. Ma per farlo occorre uscire dalla logica riduttiva del borgo, rigenerare e riqualificare il rapporto delle antiche trame insediative con il più vasto dintorno, la campagna, i boschi, i sentieri,  la città.

E’ necessario attivare nuove economie e conoscenze, nuova agricoltura, nuova pastorizia, nuovo artigianato. Riabitare i luoghi non soltanto con i pochi restanti, ma anche con nuovi ritorni e nuovi arrivi. Costruire insomma nuovo territorio, nuova comunità che si prenda quotidianamente cura dei luoghi e dei paesaggi in cui abita. Con le nuove famiglie, i nuovi saperi, i bambini, la scuola, i trasporti, l’ambulatorio, la biblioteca, tutti quei servizi di cittadinanza che oggi mancano. Un paese, in fondo, non è altro che un “tratto di terra non piccolo, in cui gente abita o può abitare trovando da campare la vita” (dizionario etimologico Tommaseo-Bellini, 1875). Un paese ci vuole, scriveva Cesare Pavese. Ci vuole sempre, oggi più che mai.

Tutto questo i dodici restanti, da soli, non potranno mai farlo. Occorrono politiche pubbliche di ripopolamento e rigenerazione basate sulla costruzione di reti e forme di progettualità partecipate. Servono amministrazioni capaci di elaborare nuove strategie di territorio spostando lo sguardo dal centro alla periferia. Occorrono insomma investimenti economici, sociali e infrastrutturali rilevanti, in grado di attivare processi pazienti e impegnativi di lungo periodo.

Autunno in Barbagia

Scrivo queste note su Lollove perché di recente ho visitato, per la prima volta, questo incantevole borgo che sta sotto Nuoro. Era un giorno di festa, di Cortes Apertas, di Autunno in Barbagia 2022, sabato 8 Ottobre.

Per andare a Lollove prendo il bus o “postalino” come lo chiamano a Nuoro, che per l’occasione ha potenziato il servizio ed è gratuito. Altrimenti, nei giorni feriali normali e dal punto di centro città da cui parto, ci sono solo due corse, due per andare, due per tornare. Con me viaggiano altri sette passeggeri, tre allegre ragazze, due donne anziane, una coppia assorta nei telefonini. Il percorso dura circa 30 minuti, in una strada piuttosto stretta, che scende curva dopo curva nella valle. Superato il ponte del rio Mareri, il piccolo bus riprende a salire, incrocia le lunghe file di macchine dei visitatori parcheggiate ai lati o nei dintorni della stradina, finché arriva al capolinea. Il borgo è pieno di gente, suoni e voci, nuvolette di fumo e odori.

Volevo solo passeggiare e guardare, ma poi ho finito per girare video con il mio smartphone, come faccio spesso muovendomi nei luoghi o camminando per strada, catturato dalle immagini che vedo e che forse mi vedono. Mi sono messo a osservare e a riprendere con la mia solita postura un po’ fluttuante, stando più di lato e di dietro che di fronte. La gente, le case, i muri, un gatto. Una settantina di clip in un paio d’ore, tante, troppe, che poi ho montato a casa. A volte mi chiedo se le immagini video che giro aumentino o riducano la mia capacità di fare esperienza e ascolto del mondo da cui nascono. Se non siano solo una maniera o mania per distrarmi, giusto per fare qualcosa.

Del video finale mi piace una scena collocata quasi all’inizio. Una donna facente parte di un piccolo gruppo di persone anziane giunte ai confini dell’abitato esclama “Non c’è niente qui”. La voce di un uomo, forse il marito, ribatte “E’ campagna”. Da quel niente, che oggi appare come un margine vuoto, è nata la storia di Lollove. E’ a quel niente, a quell’oltre, che forse oggi bisogna tornare.