Se c’è un regista cinematografico che nelle sue opere ha utilizzato il potere plastico e modellante delle ombre, questo è senz’altro Ingmar Bergman (1918-2007). La messa in forma di volti e ambienti da parte delle ombre ricorre soprattutto nei film in bianco e nero degli anni 50-60, centrati sulla crisi esistenziale dell’uomo che interroga il silenzio di Dio. Le ombre sono i simboli evidenti della solitudine e del profondo travaglio interiore dei protagonisti delle storie narrate dal maestro svedese.
Grazie anche all’apporto e alla bravura dei grandi direttori della fotografia di cui si è sempre servito – Sven Nykvist, in particolare – Bergman gioca più con le ombre che con le luci. Le ombre sono certo effetto delle luci, ma esse aderiscono ai corpi, agli oggetti, più di quanto facciano le luci. Non sono il vuoto, l’assenza della luce, un fenomeno puramente derivato. E’ l’ombra propria delle cose, che sembra emanare dalle cose stesse, come una sorta di seconda pelle, di colore. Il colore dell’anima, il suo racconto, la sua grammatica visiva.
Raramente nei film di Bergman le ombre si staccano dalle figure reali, per farsi ombre portate, proiezioni che si disegnano sulla superficie di un muro, una tenda, una porta, una strada. L’ombra è piuttosto la penombra, il chiaroscuro avvolgente e ambiguo, parte costitutiva ed espressiva del mondo rappresentato, non il suo semplice doppio. E’ l’ombra che abita i corpi, le cose e i luoghi. Non il regno delle tenebre, ma semmai le tenebre del regno.
L’attrazione per le ombre è l’attrazione per il cinema, che inizia con l’infanzia. E’ una notte di Natale, il piccolo Ingmar aspetta ansioso di ricevere in dono il tanto desiderato proiettore cinematografico. Babbo Natale commette però un imperdonabile errore: a Ingmar porta un teatrino di burattini, al fratello il proiettore. La delusione è cocente, ma Ingmar rimedia scambiando i burattini con il “suo” proiettore avuto dal fratello.
L’episodio è ricordato nel libero autobiografico La Lanterna magica. “Le ombre silenziose volgono verso di me i loro volti pallidi e parlano con voci inaudibili ai miei più segreti sentimenti. Sono passati sessant’anni, non è cambiato niente, è la stessa febbre”.
Cinema delle ombre, ombre del cinema.