Il cagnolino zampetta ciondolante sul marciapiede. Si ferma per un istante all’ombra di una alberello, si volta appena verso di me quasi volesse invitarmi a seguirlo. Ma lui mi ha già catturato, da qualche secondo è per me anche un video, un’immagine. Riprende a muoversi, continuo ad andargli dietro con lo smartphone, lo filmo come sempre felice di filmare qualcosa che ha urtato la mia anima. E’ grassoccio, non giovanissimo, il pelo bruno corto sbiancato tra la testa e il dorso, a tratti la lingua gli penzola dalla bocca. Fa caldo, si suda per niente, bagnati e prostrati dalla grande afa dell’anticiclone africano di questi insopportabili giorni al mare. Il cagnolino e io e nessun altro, lui davanti io dietro, andando insieme dove lui mi porta. Questo miracolo dell’incontro, tutte le volte.
Il cagnolino ogni tanto rallenta, si ferma, annusa, esplora, poi riprende il cammino, accelera il passo trotterellando. E anch’io rallento, mi fermo e accelero con lui. La nostra passeggiata termina quando il cagnolino attraversa di fretta il viale del mare e scompare nel cortile di una casa da cui probabilmente proviene. Passano delle macchine, ignare.
Amo il cinema della lentezza fatto di lunghe e lunghissime inquadrature, per molti, la maggioranza, noiose e inutili. Il cinema delle piccole cose della vita ordinaria, dell’andare a passeggio osservando il mondo che mi circonda. Nel tempo odierno dominato dalla velocità, nulla è più straordinario che porre attenzione all’ordinario. “Bisogna osservare, osservare e osservare ancora”, con le parole del grande pittore Balthus. Osservare non soltanto davanti, al centro, ma soprattutto di lato, ai margini.
Il cinema documentario della lentezza non parte da pretese narrative e di senso precostituite, ma dalle cose che semplicemente accadono, si mostrano e diventano meravigliose facendosi immagine e quindi racconto, pensiero, memoria. Tra i tanti cani visti nella mia vita questo cagnolino sconosciuto di Sos Alinos lo ricorderò per sempre. Non so lui, di me.