Avevo vent’anni, giocavo a flipper. La biglia argentata rimbalzava tra passaggi, relè, buche, luci e segnali acustici, scivolando imponderabile come i nostri sogni. Appariva, scompariva, saettava, rallentava, frammezzando continuità e intermittenze. La partita era molto fisica, sudaticcia, un corpo a corpo, quasi un amplesso simulato dal movimento delle anche e del bacino: una macchina da battere e da “sbattere” scuotendola. Gioco per soli maschi, il flipper era femmina.
Era un gioco piuttosto tranquillo, se vogliamo pacifista. Piaceva a Bob Dylan, Joe Strummer, Bruce Springsteen. Lo giocava il piccolo Antoine Doinel nel film I 400 colpi di Truffaut. Nel 1969 gli Who gli dedicarono un vero e proprio inno d’amore con la canzone Pinball Wizard, che inizia così: “Fin da quando ero ragazzo ho giocato a flipper da Soho fino a Brighton”.
Il flipper non piaceva però alle istituzioni, era sospettato di eresia e malaffare. Nell’America degli anni ’40 fu di fatto bandito in quanto considerato un gioco d’azzardo, un’interdizione che durò sino al 1976. Ma la gente non smise mai di amarlo. Divertimento a bassissimo costo diffusosi a partire dalla Grande Depressione degli anni ’30, il flipper, lontano parente dell’antica Bagatelle, era ormai diventato un mito popolare. Un gioco da poveri ma belli.
Il mito finì negli anni ’80, sostituito dai videogiochi di cui il flipper fu in realtà il precursore. Gioco analogico, tecnologicamente complesso e sofisticato, oggi diventato digitale, un’app androide per popolazioni androidi. Sparito dai bar dove imperversano le solitarie e tristissime slot machine, sopravvive come macchina fisica tra i collezionisti, gli amatori, in qualche rara sala specializzata, nei musei. Ignoto alla maggioranza dei giovani, il flipper è per lo più un’affezione nostalgica di ultra sessantenni, l’oggetto perduto di un’età perduta.
Il senso del gioco
Giocare a flipper significava giocare con il caso, misurarsi con l’imprevedibilità dei movimenti della pallina cercando di orientarla. La casualità sfidante e in certa misura “governabile” era l’essenza del gioco, che si svolgeva accompagnato dalle altalenanti espressioni di euforia, di frustrazione e di aggressività del giocatore. La pallina vinceva sempre, dileguandosi prima o poi nella buca. L’abilità consisteva nel tenerla il più a lungo possibile in vita, roteante sul campo di gioco, che era un campo inclinato, accumulando punti. Bisognava stare attenti a non scuotere troppo la macchina per non mandarla in tilt, determinando un’interruzione prematura e istantanea del gioco. Era insomma una sfida persa in partenza contro l’inevitabile fine: game over.
Il flipper era un oggetto-macchina collocato in uno spazio pubblico, di solito un bar o una sala giochi. Lo si poteva guardare messo in azione da altri o agire direttamente in prima persona, nel duplice ruolo di spettatore o giocatore. Come ogni gioco costituiva uno spettacolo, una messa in scena, una mescolanza di reale e irreale, di presenza e assenza. L’angolo del flipper attraeva persone, faceva socialità, sospendeva provvisoriamente le abitudini e i ritmi della vita di tutti i giorni. Era un luogo distinto dell’espressività umana, un campo dell’esperienza ludica e non solo ritagliato in un altro luogo più ampio che lo conteneva. Un campo appartato di storie, di appagamenti e sconfitte, di illusioni e delusioni, di gioie e dolori, come la vita. “L’uomo è completo solo quando gioca”, dice Schiller. Giocando creiamo significati, “mondi” di senso finito che stanno nel mondo.
Iconografie
La particolarità delle pinball machines era quella di arricchire – almeno secondo le intenzioni dei produttori – l’esperienza del gioco attraverso immagini che illustravano tutta una serie di scene di vita. Con il tempo, si era sviluppata una vera e propria tradizione di artwork applicata alle differenti parti della macchina, soprattuto al playfield e al backglass. Essa era il frutto della creatività di artisti, designer e ingegneri ingaggiati dalle società di produzione (Gottlieb, Williams, Stern), che dava origine a rappresentazioni caratterizzate spesso da un elevato livello estetico. Molte di queste opere, in genere di stile pop art, circolano oggi nel mercato artistico.
Il giocatore si muoveva di volta in volta in paesaggi sportivi, giocosi, musicali, esotici, bellici, amorosi, futuribili. Di tutto e di più, dal picnic, al baseball, al race ippico e automobilistico, alle guerre stellari. Si trattava di raffigurazioni largamente stereotipate, che riproducevano pari pari gli archetipi visivi convenzionali dell’ american way of life, ripresi volentieri dalle narrazioni cinematografiche e televisive di maggior successo. Il pinball doveva sedurre e rassicurare, il suo campo da gioco non era un campo del conflitto e delle diversità (rarissime, ad esempio, le figure afro americane). Ogni modello di flipper era dotato di una sua “colonna sonora”, che combinandosi con gli aspetti visivi, cinetici e tattili faceva del gioco un’esperienza di tipo immersivo.
Donne
La rappresentazione del corpo femminile ricopre un ruolo di primissimo piano nella storia di un gioco chiaramente disseminato di simbologie e allusioni sessuali (a iniziare dallo stesso pistone a molla di lancio della biglia). Le donne disegnate sul flipper appaiono quasi esclusivamente come oggetti sessuali (vedi in proposito l’analisi di Melissa A. Fanton). Sempre con i capelli lunghi e i seni ben in vista, il corpo snello e slanciato, la postura invitante. Dalla sorridente ballerina in bikini degli anni ’50 alla guerriera superdotata e magari androgina degli anni ’80. Da Alice nel paese delle meraviglie alla diabolica Elvira.
L’ideologia familistica, puritana e insieme sessista dell’iconografia flipper può generare a volte figurazioni davvero imbarazzati. E’ il caso, per fare un solo esempio, di Whoa Nellie! Big Juicy Melons. La giovane e un po’ selvaggia Nellie, che posa in abiti succinti al centro della scena, tiene due meloni premuti contro i seni. Rivolge uno sguardo ammiccante al giocatore, mentre viene a sua volta guardata dai personaggi maschili (nonché dal cane in primo piano), che sgranano gli occhi per la sorpresa e sbavano con la lingua di fuori. Più sessista e maschilista di così si muore.
La donna è icona dominante del flipper, ma non partecipa mai, o quasi mai, al gioco, nemmeno come spettatrice. C’è e non c’è, come un fantasma dietro la porta. E’ puro segno, è la “donna oggetto” tanto cara alla comunicazione mediatica dominante e in particolare a quella veicolata dal sistema pubblicitario. Oggi le donne giocano un po’ di più al flipper, si svolgono persino dei campionati femminili. Il revival del gioco, in atto da qualche anno, le ha come sdoganate, ma continuano a costituire un’esigua minoranza in un campo da sempre dominato dai maschi. E difficilmente le (assai poche rispetto al passato) pinball machines attualmente prodotte cambieranno sesso.