Lungo il viale che da Sos Alinos porta alla spiaggia di Cala Liberotto si trova, sul lato destro, una cabina telefonica ormai in disuso da diversi anni.
Appare all’improvviso, inattesa e solitaria, davanti a una casetta rosa di ex contadini, una campagna di uliveti sullo sfondo. E’ messa accanto a uno spazio di affissioni pubbliche contenente gli annunci funebri di persone del luogo decedute di recente.
Dentro una delle postazioni dalle pareti in plexiglas è rimasto l’apparecchio con la cornetta appesa, sbiancata dal sole. E’ muta, staccata definitivamente dal mondo dei viventi, dalla sua funzione originaria, che ora rimane solo come memoria, come simulacro.
Lo scatolone grigio in metallo satinato ha una tastiera alfanumerica e l’imboccatura per la scheda elettronica. E’ il modello Digito, uscito nel 2002 e disegnato da Giugaro, che consentiva anche di inviare messaggi scritti, leggibili sul piccolo display verdastro. Funzionava con la scheda e con le nuove monetine dell’Euro, che italiani ed europei stavano imparando ad usare da circa un anno. I numeri dei tasti sono usurati, eccetto il cinque e il sei, quasi che questi comparissero con minor frequenza nella composizione dei numeri telefonici complessivi. Nell’altra postazione l’apparecchio è sparito, divelto, rubato.
E’ l’ora che precede il tramonto, fa ancora caldo, si sente il canto impazzito e melanconico delle tortore. Passa un bagnante che torna dalla spiaggia. Dieci anni fa si sarebbe forse fermato alla cabina per telefonare a qualcuno o qualcuna, spinto da un bisogno puntuale di comunicazione. Ora procede senza voltarsi, con il cellulare attaccato all’orecchio, impegnato in una conversazione infinita.
La cabina come luogo
La cabina telefonica – anche per via dell’attesa di quelli che aspettavano impazienti il loro turno – imponeva un linguaggio sintetico, essenziale, fatto di parole e di frasi pensate ancora prima di sollevare la cornetta. Erano voci concitate, furiose o amorevoli, discrete o sfacciate, scandite dai tonfi dei gettoni o delle monete, che regolavano una durata quasi sempre insufficiente per poter dire tutto quello che si voleva dire. Quelli della vecchia cabina telefonica erano i tempi differiti dell’attesa, delle cartoline, delle lettere, di una vicinanza nella lontananza.
Degli avvisi della Telecom annunciano, come degli epitaffi, che la cabina telefonica verrà rimossa entro una data ancora da definirsi. Colpisce questa strana vicinanza tra le commemorazioni funebri e la cabina morente, che di quei morti umani aveva magari un tempo accolto le vive voci. E’ come se cabina e defunti, nel loro al di là di voci, fossero reciprocamente presenti, quasi si parlassero, e insieme rafforzassero la memoria e il senso di quel modesto e appartato luogo che, come la casa retrostante, entrambi “abitano”.
La cabina telefonica delimitava uno spazio provvisorio di intimità privata in uno spazio pubblico. Era un luogo condiviso ad accessibilità universale, sempre aperto, democratico: confine tra la libertà personale e quella altrui. Non solo avvicinava il lontano, ma poneva in relazione con il dintorno, con tutto ciò che le era prossimo: le case, la strada, la piazza, la gente, i suoni. Le anime dei defunti. Questo mondo di fuori, visibile attraverso la trasparenza delle vetrate, appariva un po’ come un mondo sospeso, che si offriva ad uno sguardo in qualche modo vuoto o assente, perchè più raccolto nel parlare e nell’ascoltare che nel vedere, ma proprio per questo forse maggiormente contemplativo e perspicuo. La cabina, dalla quale si godeva una sorta di “intravista” e in cui si entrava per poi uscirne, era una soglia, una porta, un punto di passaggio e di congiunzione tra un interno e un esterno. Tra l’io e il mondo. Senza il guscio protettivo delle cabine telefoniche, che punteggiavano e animavano il paesaggio urbano e rurale, ci rimarrà tra le mani soltanto la “nuda vita” dei nostri telefonini.