“Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene,” scriveva Cesare Pavese in La luna e i falò. “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” Ma se il paese scompare?
Aidomaggiore è un piccolo paese dell’oristanese, sub regione del dolce Guilcer, che secondo uno studio del 2016 potrebbe scomparire nel giro di 60 anni. Sono trascorsi 8 anni da quello studio e la popolazione è nel frattempo diminuita di un altro 14%. Di questo passo quelle catastrofiche proiezioni demografiche rischiano di avverarsi per davvero.
Al febbraio del 2024 Aidomaggiore conta 382 residenti contro i 1002 del 1951. Vi risiedono soltanto 14 bambini sino ai 6 anni, erano 123 nel 1951. Idem per ragazzi, giovani e persone attive, mentre aumenta soltanto il peso dei soggetti con 65 anni e più (dall’11% al 32%). Un tempo non esistevano le case non occupate, oggi sono 166 su un totale di 357. E mentre lo spopolamento non si arresta, cresce, paradossalmente, il numero delle autovetture immatricolate (+12% tra il 2002 e il 2023). E diminuisce la Sau, superficie agricola utilizzata, per farsi terra marginale, spesso abbandonata.
Un paese ci vuole
Ma questi sono dati statistici, noti e stranoti, che lasciano un po’ il tempo che trovano. É che questi dati così neri Aidomaggiore – almeno apparentemente – non se li merita proprio. Per il semplice fatto che è un bel paese, ben tenuto, probabilmente migliore di quando era quel paese pieno come un uovo che non tornerà più. Un paese con delle belle case, vecchie o più recenti, magari non occupate, ma per lo più tenute con cura. Come se il paese fosse in parte abitato a distanza. La scuola di musica, la biblioteca comunale con dieci mila volumi, le associazioni, le feste, i nuraghi, le tombe dei giganti, l’antica magnifica fontana-lavatoio. Il grande parco con i giochi per i bambini che non ci sono, come se fosse il parco per i bambini di domani.
Camminando tra le stradine di Aidomaggiore si vedono e si sentono solo loro, le amate auto, e pochissime persone: da contarsi sulle dita di una mano. E anche un po’ di motorini scoppiettanti in giro. Ma a un certo punto, verso mezzogiorno, un’apparizione improvvisa e fragorosa, accompagnata dallo scampanio incalzante proveniente dal campanile della chiesa, rompe il consueto silenzio, anima lo spazio immobile. Gli “invisibili” ci sono, si mostrano. Sono i giovani a cavallo che scendono lungo la strada principale diretti al Novenario di Santa Barbara. Bello, mi si allarga il cuore a vederli, la vita ad Aidomaggiore c’è – nonostante tutto. Un paese ci vuole anche per questo, perché senza paese non ci sarebbero più feste. Rimarrebbero soltanto delle rovine, delle memorie, e, se va bene, un pellegrinaggio annuale proveniente da fuori, come succede in certi paesi abbandonati della Calabria.
Se solo ci fosse un po’ più di lavoro qui si vivrebbe da dio, penso, sulla dolce e assolata collina digradante verso il lago Omodeo, il più grande bacino artificiale d’Europa. Aidomaggiore ha una forza, una sapienza, che sta anche nella radice antica del suo nome: “aidu”, che significa “ingresso”. E dove c’è un ingresso prima o poi qualcuno arriva per entrare.