Filippo Davis, classe 1924, è l’ultimo dei due ex partigiani ancora viventi in zona Barona a Milano. L’altro è Mario Ciurli, più giovane di un anno. Pochi giorni fa mi è giunta la notizia della morte di Giuseppe Dozio, residente a Baggio, ma che aveva iniziato giovanissimo il suo impegno antifascista alla Barona, dove allora viveva, per andare poi a combattere in Val d’Ossola. Nell’ottobre del 2015 era mancato Pierfranco Vitali e nel giugno del 2013 Aldo Marchi, per diversi anni presidente della Sezione Anpi di Barona.
Ho avuto modo di conoscere le cinque persone sopra citate e di raccogliere, con la collaborazione di Ivano Casati dell’Anpi Barona, le loro testimonianze di vita partigiana attraverso delle interviste video più o meno lunghe. Questa esperienza mi induce a sviluppare qui alcune brevi considerazioni su cosa significhi oggi fare memoria di un periodo così cruciale della storia italiana come fu quello della Resistenza.
Fare memoria
La Resistenza è oggetto, ormai da lungo tempo, di numerose e ricorrenti pratiche di memoria e commemorazione, che ne ribadiscono il valore di evento di fondazione dell’Italia repubblicana e democratica e della sua Costituzione. Istituzioni, associazioni, singoli individui contribuiscono ad alimentare, nei diversi ambiti territoriali, ricordi e rievocazioni del periodo resistenziale, facendone un bene culturale comune, un monumento pubblico diffuso.
Le storie che gli ex partigiani ci raccontano con tanta generosità ed emozione tendono a privilegiare nettamente la dimensione fattuale. Esse appaiono strutturate intorno a nuclei narrativi relativamente stabili focalizzati sul racconto di azioni, tattiche, comandanti carismatici. L’accento viene posto anche sui pericoli, i sotterfugi, gli stenti di una vita condotta in clandestinità. E’ invece raro che affiorino sentimenti, dubbi, amicizie, antipatie, amori, conflitti, tradimenti. Una posizione secondaria occupa anche lo stesso racconto del vissuto connesso alla difficile “scelta” di diventare partigiano, che significò un radicale e drammatico cambiamento di vita presente e di sguardo sul futuro.
Più che come persone, i partigiani si raccontano quindi come gli agenti e i protagonisti di una vicenda che ha cambiato il volto dell’Italia. Essi appaiono calati nel ruolo di testimoni della Storia, i cui racconti s’inquadrano all’interno della più generale narrazione pubblica della Resistenza, pervasa da significati istituzionali e politici. E’ un po’ come se i racconti partigiani seguissero – chi più, chi meno – un “canovaccio” già scritto e ad ogni testimonianza “recitato” allo stesso modo. A volte si ha la sensazione che essi ci dicano le cose che vogliamo sentirci dire. Un già sentito indirizzato magari dall’intervistatore stesso quando ad esempio, con curiosità fanciullesca, chiede “Lei ha mai sparato?”.
Non so se sia possibile stimolare l’apertura delle memorie partigiane a delle narrazioni che pongano al centro la persona e non solo i fatti da essa vissuti. Il racconto della Resistenza non può essere ridotto al semplice “regesto di eventi e personaggi” (Fabio Dei, 2009). E’ molto di più, è un’esperienza che mette in campo storie, corpi, passioni, desideri, speranze, relazioni, litigi, apprendimenti. E’ una rivoluzione personale e non solo politica. E’ un romanzo aperto.
Al di là di questi limiti problematici, emersi anche nelle nostre interviste, rimane un immenso patrimonio di memorie fatto di voci, immagini, scritture, oggetti. Un patrimonio diffuso che innerva le storie locali, specie al Nord, ma anche al Sud. Un bene pubblico di territorio, che meriterebbe ricognizioni, letture, attenzioni, conservazioni e valorizzazioni adeguate.
Filippo Davis
Ha una bella faccia Filippo Davis, una bella faccia da partigiano di 93 anni. Nato a Il Cairo, aveva imparato le lingue, risorsa preziosa per il suo lavoro alla Fiat ereditato dal padre subito dopo la fine della guerra. E per la sua grande passione filatelica, che aveva iniziato a coltivare da ragazzo, in terra araba, e che ancora riempie le sue giornate.
A tratti respira un po’ con l’affanno Filippo, le parole lo affaticano, ma alla fine avrà parlato per quaranta minuti. I ricordi più belli relativi al periodo della Resistenza, combattuta nella zona del Canavese tra l’inverno del ’44 e l’aprile del ’45, sono la solidarietà interna al gruppo di cui Filippo faceva parte (VI Divisione Alpina Canavesana) e quella espressa dai contadini locali con gli aiuti alimentari agli affamati partigiani.
Filippo afferma, con decisione, l’orgoglio di essere stato partigiano, la forza morale e civile della Resistenza, che gli ha consentito di vivere la vita successiva tenendo sempre “la fronte alta”. E’ la stessa tensione che impronta l’impegno generoso dell’Anpi, a proposito del quale Filippo dice: “Me ne vado contento, perché so che rimane qualcosa di sano, di salutare”.
Poi sono venuti il lavoro, una bella moglie, un figlio e una figlia, i corrispondenti filatelici all’estero, il grande appartamento all’ottavo e ultimo piano di un palazzo di viale Famagosta, zona Barona, da dove si domina mezza Milano. Sono soltanto piccoli frammenti narrativi, ma aggiungono sapore alla vita di Filippo Davis. Ritengo che sia giusto e doveroso fare in modo che il racconto di un partigiano non sia soltanto il racconto dell’esperienza vissuta durante la Resistenza, ma anche, per quanto possibile, il racconto della sua vita.