“Non si pensa abbastanza alle scale. Niente era più bello, nelle vecchie case, delle scale. Niente è più brutto, più freddo, più ostile, più meschino, nei palazzi d’oggi. Si dovrebbe imparare a vivere di più nelle scale. Ma come?” (Georges Perec, Specie di spazi, 1974).
Nelle case di una volta, articolate su tre o quattro piani, le scale – di pietra, di legno o di ferro – erano una componente fondamentale del senso e del vissuto dell’abitare, facevano parte di un racconto. Come dice Gaston Bachelard, esse alimentavano i valori intimi e sognanti della verticalità, congiungendo il basso della cantina con l’alto della soffitta. L’oscuro, il profondo, il sotterraneo con il chiaro, l’aereo, le nuvole, il cielo sopra il tetto. Implicavano movimento, salire e scendere, erano pensiero, che è appunto “movimento circolare delle scale” (Hegel).
Tutto questo non c’è più. Le case, soprattutto quelle di città, sono cresciute in altezza, ma hanno perso il senso della verticalità. I passi e i respiri sui gradini sono state sostituiti dall’immobilismo muto dentro gli ascensori, che “distruggono gli eroismi della scala” (Bachelard). Sono scale di servizio, di sicurezza, utilizzabili soltanto in caso di emergenza. Vie di fuga.
Ho fotografato, per diversi giorni, le scale del palazzo di otto piani in cui abito. Non ho visto e incontrato un essere umano, anche solo di sfuggita. Spazi vuoti tra muri che si ripetono identici ai piani, come una spirale, la tromba delle scale, che sempre inquieta soprattutto se osservata dall’alto dell’ultimo piano. Il vuoto nel vuoto.
Percepisco dei rumori, dei suoni: una porta che sbatte, un trapano che stride, voci che salgono dall’ingresso, una serratura che scatta, un televisore che trasmetta la messa, il ronzio dell’ascensore. Sono frammenti, tracce, piccoli echi furtivi di vite domestiche chiuse tra i muri di 24 abitazioni. Così vicine e confinanti, appena separate da delle pareti, eppure così lontane.