La mia lavanderia preferita non esiste, non sono mai entrato in una lavanderia pubblica a gettoni, che gli inglesi chiamano laundrette e gli americani laundromat. I nostri panni sporchi li abbiamo sempre lavati in famiglia. Da piccolo con il bucato a mano di mia madre, da grande con la lavatrice collocata nel luogo più intimo della casa, il bagno. Intimità chiama intimità.
La lavanderia a self-service è però un luogo importante delle nostre città, specie oggi con le nuove popolazioni di immigrati, gli anziani soli, le famiglie unipersonali, gli studenti universitari, i giovani lavoratori o quelli temporaneamente presenti. Sono queste le principali categorie di utilizzatori delle lavanderie automatiche, che si localizzano per lo più nei quartieri residenziali popolari, nei pressi magari di una palestra, un supermercato, un’università.
La prima lavanderia a gettoni nasce nel 1934, in Texas, durante la Grande Depressione. Aveva un nome curioso: Washateria. Quindici anni dopo, esattamente il 9 maggio 1949, viene inaugurata a Londra, nel quartiere di Queensway, la prima launderette europea. E’ come se attraverso questi dispositivi igienici il mondo volesse sbarazzarsi delle sporcizie patite con la misera e la guerra, indossando abiti se non nuovi almeno puliti. Igiene e pulizia iniziano a diventare valori portanti dei nuovi di stili di vita emergenti. Cleanest clean under the sun, recita uno spot televisivo del 1946 del famoso detersivo per lavatrice Tilde.
La lavatrice automatica casalinga diventa rapidamente uno dei simboli più ricorrenti e amati della società dei consumi. E’ bianca, perché il bianco è il colore simbolico della pulizia. Svolge anche una dichiarata funzione sociale, che è quella di liberare le donne dalle fatiche del lavoro domestico. Il suo grande successo commerciale si traduce in un relativo declino delle lavanderia pubblica a gettone. Ma questa è ben lungi dallo sparire dalla scena urbana, continuando a fare bene il suo dovere e occupando uno spazio significativo nella vita sempre più interetnica delle città. Essa è anche entrata a fare parte della storia del cinema mondiale attraverso il bel film My Beautiful Laundrette del bravo regista inglese Stephen Frears.
My favourite launderette
Anche se non sono mai entrato fisicamente in una lavanderia a gettone, nell’ultimo periodo mi è capitato di visitarne, con una certa costanza, almeno quatto o cinque. Tutte localizzate in cittadine francesi, tutte osservate e fotografate tramite le telecamere di video sorveglianza del network Insecam. Da queste visite virtuali ho ricavato un video dal titolo My favourite launderette. La “mia” lavanderia perché immagino che gli utilizzatori abituali di questo servizio preferiscano servirsi sempre della stessa lavanderia, elaborando così un vissuto di luogo. E mi piace pensare che qualcuno, in questi posti, abbia incontrato un amico, un amore. Che la lavanderia favorita sia diventata un luogo dei suoi pensieri, delle sue letture, dei suoi sogni ad occhi aperti. Tra gli odori chimici dei detersivi, il rumore metallico e monotono delle centrifughe che ruotano e dell’acqua che scorre, l’atmosfera ovattata, gli sguardi, le parole, gli indumenti e i corpi degli altri.
La laundromat è uno spazio sospeso tra la dimensione pubblica della città e quella privata della casa. E’ il luogo di auto rappresentazione di un’azione intima come fare il bucato svolta davanti a un “pubblico” di persone più o meno sconosciute. E’ il prolungamento dello spazio noto della casa in uno spazio non familiare, che può a volte generare un certo disagio. Dover mettere in mostra gli articoli più intimi del proprio abbigliamento (come mutande e reggiseni) non dev’essere per tutti piacevole. Chissà, forse è un po’ come spogliarsi sotto lo sguardo giudicante degli altri. Vedete, questi sono gli indumenti, le lenzuola, gli asciugamani, gli “stracci” che avvolgono il mio corpo. Una condivisione forzosa di una dimensione della propria intimità con delle persone estranee.
La lavanderia pubblica è anche però un luogo di incontri, relazioni, conoscenze, chiacchiere. Uno spazio da frequentare magari in compagnia di amici, membri della famiglia, badanti. Un luogo per certi versi di costrizione del privato, ma nel quale sono libero di compiere una serie di altre azioni individuali: bermi una birra, leggere il giornale, lavorare al computer, fare la maglia, guardarmi le unghie, stare seduto o in piedi, schiacciare un pisolino. Un luogo pubblico, appunto, in cui si può entrare e da cui si può uscire liberamente senza dover pagare niente (a parte, è ovvio, il servizio reso, che è comunque di basso costo). Un luogo pieno di mondo, ma contemporaneamente fuori dal mondo, separato, perché il tempo trascorso tra le sue mura e le sue macchine sospende i ritmi e gli spazi consueti della vita ordinaria. Non un luogo pubblico di tutti i giorni, ma dei giorni del bucato, quando ci si vuole prendere cura di cose senza le quali non potremmo neppure vivere.