Sono nato a Firenze ai primi di marzo del ‘40. I miei ricordi di guerra perciò non possono essere dei veri ricordi. Sono piuttosto dei flashes di immagini, di rumori, di emozioni, intorno ai quali solo in seguito ho potuto ricostruire un contesto. Ma questi flashes sono così vivi e veri che me li porto dietro da tutta la vita. Cercherò quindi di rappresentarli scrivendoli in corsivo, mentre per il loro contesto, che non fa parte della mia memoria ma è stato aggiunto da racconti, spiegazioni e descrizioni successive, userò il carattere tondo.
La mia famiglia è di origine volterrana, ma per ragioni di lavoro mio padre e mia madre già dal ’38 si erano trasferiti a Firenze. Nell’inverno-primavera del 1944 gli alleati avevano intensificato i bombardamenti su Firenze e i miei decisero di sfollare nel loro paese d’origine.
Ci sistemammo in una bellissima fattoria di mio nonno chiamata Montaperti (che non ha niente a che vedere con la Montaperti di Dante) a nord di Volterra, posta sulle prime pendici settentrionali della Val d’Era. Intanto, a sud, gli alleati avanzavano ed erano giunti fino alla Val di Cecina. Dall’alto di Volterra i Tedeschi tentavano di ritardarne l’avanzata.
Primo flash. Nel piazzale prospiciente la fattoria c’è un carro armato con il motore spento. Io sono in piedi su una piattaforma del carro armato e sotto di me un uomo in divisa mi sorride.
La liberazione di Volterra
I tedeschi ci dicono che ce ne dobbiamo andare. Poco prima dell’alba babbo attacca Piètteneri (il cavallo della fattoria) al calesse, vi sale con mia madre, con me e mia sorella di quattro anni più grande e ci dirigiamo verso Volterra distante una quindicina di chilometri. Arriviamo in Val d’Era e poco prima di attraversare il ponte che ci avrebbe permesso di risalire verso Volterra, un urlo terrificante che non finisce mai. Io sono schiacciato sotto il corpo di mia madre al lato della strada, ma riesco a vedere mio padre attaccato alla cavezza di Piètteneri imbizzarrito che cerca di trattenerlo. Ci hanno dato una mitragliata e se ne sono andati.
Entriamo a Volterra da Via Nova, il clop clop clop di Piètteneri che rimbomba nella strada deserta ce l’ho ancora nelle orecchie.
Ci sistemiamo in un appartamento all’ultimo piano di una delle prime case di Via Franceschini, vicino all’ospedale. Da Saline di Volterra, in Val di Cecina, gli alleati sparano cannonate un po’ a casaccio su Volterra e noi, ogni volta, ai primi botti scendiamo nelle cantine. Una notte siamo tutti in piedi nella cantina affollatissima, è tutto buio, mia madre mi tiene in braccio, io non posso trattenere una scarica di diarrea e la inondo da capo a piedi.
Una mattina presto, dopo un bombardamento, mio padre e io siamo affacciati a una finestra che dà sulla strada, giù in basso due persone sorreggono, ai due capi, un lenzuolo. Dietro di loro una donna urla: “ Me l’hanno ammazzato, me l’hanno ammazzato”. A dire la verità non credo che allora capissi bene perché quella donna urlasse tanto.
Siamo ancora in via Franceschini, una sera eravamo seduti a tavola per la cena, bussano in maniera piuttosto violenta, mio padre va ad aprire. Sulla porta compare un uomo tutto nero con un fiasco in mano che tenta di entrare, mio padre lo spinge via e richiude la porta.
È stata la prima persona di colore che io abbia mai visto. Volterra era stata liberata, e la “mia” guerra era finita.